giovedì 11 aprile 2019

LA RIVOLUZIONE GRAFICA AMERICANA TRA OTTO E NOVECENTO. PRESENZE NELLA COLLEZIONE DI NANDO SALCE

Si colloca tra la fine dell’Ottocento e primi anni del Novecento, come è noto, la nascita del moderno cartellonismo pubblicitario, periodo in cui gli artisti iniziano a dedicarsi a questa attività con maggiore consapevolezza – favoriti da nuove tecniche di stampa -, con invenzioni originali, realizzando manifesti che già all’epoca divennero ricercati oggetti da collezione.

E. Penfield, 
copertina Harper’s New Monthly Magazine, 1893
In questo contesto di fermento sperimentativo, è interessante ricostruire come ogni paese segua propri percorsi, pur convergendo nelle fonti ispirative, componendo un’ideale mappa artistica ben connotata a seconda che si parli di cartellonistica francese, anziché inglese o italiana o belga.
Così come per l’Italia si indica tradizionalmente nel manifesto Brevetto a incandescenza Auer (1895) di Giovanni Maria Mataloni il momento di svolta e di connessione con la migliore produzione internazionale, per gli Stati Uniti il salto di qualità avviene quando Edward Penfiel realizza il poster per il numero di aprile del 1893 di Harper’s New Monthly Magazine, di cui era direttore artistico. La semplicità compositiva abbinata a colori forti con stesura à plat appaiono come una novità per il gusto americano in voga: l’uomo con l’impermeabile verde che passeggia sotto la piogga leggendo Harper’s diverrà tra le icone estetiche di questo nuovo corso della pubblicità americana.
L’altro importante riferimento di questo movimento è William Bradley, il cui riconoscimento artistico travalicherà i confini nazionali e i suoi lavori arrivano a Parigi, venduti nei negozi specializzati per collezionisti.

Ma mentre nella capitale francese i protagonisti dei manifesti sono le ballerine di can-can, i bistrò, i locali alla moda come il Moulin Rouge o Les Folies Bergère - immortalati nei cartelli di Jules Cheret, di Henri de Toulouse-Lautrec o di Pierre Bonnard, tra gli altri - negli Stati Uniti questa rivoluzione del design pubblicitario (già conclusa entro il primo decennio del Novecento) vedrà l’industria editoriale quale principale committente: riviste come Scribner’s, Century, The Echo, The Chap-Book diverranno il trampolino di lancio per la “Golden Age of Illustration”, come qualche decennio più tardi la chiamerà un grande artista come Norman Rockwell. La stringente collaborazione tra editoria e artisti fu resa possibile dal fatto che erano propri gli editori i primi ammiratori dei protagonisti della scena inglese, francese o svizzera che in quegli anni producevano immagini di alto livello.
W. Bradley, 
The Chap-Book (Blue Lady), 1894

Attorno a Bradley e Penfield, i due leaders riconosciuti di questa rivoluzione grafica, si raggruppano molti nomi - la maggior parte impegnati sia come illustratori di libri o riviste che nella produzione di manifesti - i quali, in varia misura, produrranno materiali cult, basti pensare a The Blue Lady, The Twins o gli altri manifesti per The Chap-Book di Bradley, quelli per The Boston Sunday di Ethel Reed, e ancora quelli per The Harper’s Bazar di Louis Rhead o di Maxfield Parrish per The Scribenr’s. Immagini che propongono un florealismo raffinato, etereo, giocato per lo più sull’uso di pochi colori, cosa che oltre che aiutare ad abbattere i prezzi di produzione, consente una costruzione pulita, nitida e visivamente attraente.
La produzione, innovativa e originale, di questi artisti statunitensi deriva dagli esempi europei che all’epoca trovavano spazio di pubblicazione negli Stati Uniti, soprattutto nelle riviste illustrate. Si ravvisano echi precisi desunti dalle molteplici declinazioni dell’art nouveau e dalla grafica giapponese: Eugene Grasset, Henry de Toulouse-Lautrec, Alexandre Theofile Steinlen, ma anche il duo inglese The Beggarstaffs Brothers, le stralunate figure di Aubrey Beardsley, o gli intricati pattern floreali di William Morris sono i riferimenti più importanti.

W. Bradley, Victor Bycicles, 1892-93
Cosa riuscì ad intercettare Nando Salce di questi eccezionali materiali provenienti da oltreoceano?
In realtà non moltissimo, forse anche a causa della loro scarsa disponibilità sul mercato collezionistico.
Il pezzo più significativo è certamente il manifesto Victor Bycicles di William Bradley (1868-1962), azienda per cui il designer americano produsse varie pubblicità. Un pezzo, quello presente nella collezione Salce, che consente di raccontare due storie contemporaneamente: quella propriamente artistica, che illustra in maniera straordinaria le capacità grafiche di Bradley, e quella di una nascitura avventura imprenditoriale italiana, quella di Camillo Olivetti fondatore della celeberrima azienda.
Bradley realizzò per la Overman Wheel Company, azienda fondata nel 1882 a Chicopee Falls nel Massachusetts, vari manifesti dedicati alle biciclette modello Victor, divenute popolari per la loro leggerezza e maneggevolezza, ideali per le donne. Il manifesto presente in Salce è quello che circolava in Italia a partire dal 1894-1895, quando il giovane Camillo Olivetti, di ritorno da un soggiorno di studio negli Stati Uniti dove aveva avuto modo di stringere accordi aziendali, fonda un’impresa in società con i compagni di università Dino Gatta e Michele Ferrero, il cui scopo era la commercializzazione delle biciclette Victor, di nuovissima produzione (1892-93), e delle macchine da scrivere Williams (anche questi presenti in Salce). Tre fanciulle dai capelli rossi e con portamento principesco fluttuano a cavallo delle loro bici, e al loro passaggio si piegano lunghi e filiformi steli con pennacchio a ventaglio, il tutto contenuto entro una cornice floreale che trasforma il manifesto in una raffinata pagina illustrata.
Narcoti-cure, pagina pubblicitaria
W. Bradley, Narcoti-cure, 1895-96
L’altro pezzo firmato da Bradley e reperibile in Salce è una simpatica locandina che pubblicizza un miracoloso prodotto che doveva servire a disintossicarsi dalla nicotina: Narcoti-cure, stampato nel 1895-96 quando Bradley fondò la Wayside Press a Springfield, dove stampava la sua prestigiosa rivista Bradley: His Book.
Un armigero a cavallo con lancia in resta va a stanare il diavolo della nicotina che si annida tra le foglie del tabacco: una scenetta umoristica “griffata” e quindi ricercata. Quando essa appare nei giornali assieme all’annuncio in cui vengono illustrati i benefici di questo brevetto della Narcoti Chemical Company, la didascalia riporta il seguente avviso: “Send 4 cents for stamps to the Narcotic Chemical Co., Springfiel, Mass., for above Art Poster in 3 colors. Every collector waste one”. Quindi non solo una locandina destinata a pubblicizzare un prodotto, ma, come consapevolmente dichiarato, un poster artistico da accaparrarsi per solo quattro cents, occasione ghiotta per qualsiasi collezionista che per l’appunto non avrebbe sprecato l’opportunità!
E. Brown Bird,  
R. H. Russell's Publications,1895-97

Di notevole importanza è anche il manifesto firmato da Elisha Brown Bird (1867-1943), architetto laureato al Massachusetts Institute of Tecnology che scelse di intraprendere la professione dell’illustratore e disegnatore pubblicitario, realizzando vari manifesti per editori di Boston e di New York. Il manifesto della Salce, realizzato tra il 1895 e il 1897, fu anch’esso commissionato da un editore, il newyorchese R.H. Russell, per cui lavorò anche Edward Penfield. Un manifesto tutto giocato sui toni del rosso e del giallo, che mette in scena tre Pierrot danzanti intenti a leggere, tre macchie di colore con lo sfondo occupato da una realistica libreria stipata di volumi. I Pierrot furono il soggetto preferito di Elisha Brown Bird, basti confrontare i suoi lavori per The Red Letter, The Chap Book e Half After One.

E. Brown Bird,
 Half After One, 1897
Riferimenti diversi suggeriscono invece altri tre manifesti: due realizzati da Blanche Adele Ostertag e uno da Mary Louise Stowell, tutti caratterizzati da ricercato decorativismo e minuzia disegnativa.
La Ostertag, nata a St. Louis nel 1872 da padre tedesco e madre svizzera, si stabilì a Chicago dopo un lungo soggiorno in giro per l’Europa (a Parigi suoi lavori vennero esposti ai Salons du Champ-de-Mars). Il suo nome è legato a quello dell’architetto Franck Lloyd Wright, con il quale collaborò nel design di pannelli musivi per ricche dimore americane (Joseph e Helen Husser Residence, Chicago, 1900 ca.). Ma la fama le deriva soprattutto dal suo lavoro di illustratrice di libri per l’infanzia, in cui dimostra di aver assimilato la lezione del francese Louis-Maurice Boutet de Monvel, che negli Stati Uniti riscosse un notevole successo; uno stile che s’ispira ad uno scrupoloso descrittivismo ambientale che richiama la preziosità coloristica dei pre-raffaelliti inglesi e degli artisti giapponesi, vero punto di svolta per molti artisti negli ultimi decenni dell’Ottocento. Si ravvisano inoltre convergenze con lo stile tardo della pittrice Mary Cassatt, che fu un punto di riferimento per molte artiste statunitensi.
B. Ostertag,  
CarsonPirie Scott & Co, 1900 ca.
B. Ostertag,  
CarsonPirie Scott & Co, 1900 ca.
I due poster della Ostertag presenti in collezione Salce pubblicizzano i prodotti di Carson Pirie Scott & Company di Chicago, grandi magazzini costruiti tra il 1899 e il 1903-4 dall’architetto Louis Sullivan. In occasione della fiera del bianco,
la Ostertag propone un interno borghese con divano e tende a fiori, uccellino in gabbia e finestra sullo sfondo da cui occhieggia un cespuglio di rose; un ambiente senza ombre in cui una dama vestita in verde è intenta a ricamare la sua lunga tovaglia bianca. In pendant dimensionale l’altra scena che serviva a pubblicizzare la biancheria in mussola; qui la Ostertag ci fa entrare nella cameretta di una bimba dai capelli rossi. E mentre la madre, elegante nella sua vestaglia mattutina, le fa la treccia, l’osservatore, incrociando lo sguardo furtivo della bambina, ha il tempo di osservare il letto con il baldacchino a fiori, come il rivestimento della poltroncina a fianco, un cassettone con sopra lo specchio basculante rettangolare, tutto compreso entro la carta da parati a fasce verticali color pastello. Qui il mestiere di illustratrice della Ostertag viene impiegato a piene mani. I suoi sono interni luminosi e trasparenti, in cui il sottile segno di contorno di figure e oggetti, di perfezione calligrafica, servono per definire i particolari ma non impediscono di creare un mondo in cui persone e ambiente sono un tutt’uno.
M.L. Stowell, 
George Humphrey at the sign of the Old Man, 1896
Approccio analogo adopera Mary Louise Stowell (1850-1932) nel suo poster
per la libreria di George Humprey di Rochester, New York (George Humphrey at the sign of the Old Man, 1896), probabilmente l’unico lavoro pubblicitario realizzato da questa artista statunitense.
L’originalità del pezzo della Stowell risiede nel taglio narrativo e visivo prescelto: del biondo protagonista a mezzobusto seduto in primo piano, intento a leggere, non vediamo il volto, ma la mano su cui appoggia la testa. Anche in questo caso, come per la Ostertag, mentre lui è immerso nel suo mondo letterario, si ha il tempo lungo di divagare con lo sguardo nell’ambiente circostante: un locale seminterrato, vari libri accatastati su un tavolo azzurro in secondo piano, un’elegante grata sullo sfondo lascia intravvedere la luce della città, il mondo di fuori popolato dalle gambe delle persone che lì nei pressi passano, nel frattempo un cliente s’inoltra nel mondo interno scendendo i gradini di questa magica libreria, pronto anch’egli ad essere proiettato nell’atmosfera della libreria all’Insegna del Vecchio.





 Roberta Rizzato






Bibliografia e sitografia:

American Art Posters of the 1890s in The Metropolitan Museum of Art, including the Leonard A. Lauder Collection, catalogue by Kiehl, David W., with essays by Phillip Dennis Cate, Nancy Finlay, and David W. Kiehl, The Metropolitan Museum of Art, New York, 1987

Will H. Bradley, an american artist: selections from the Gordon A. Pfeiffer Collection

American Little Magazines of the Fin de Siecle: Art, Protest, and Cultural Transformation by Kirsten MacLeod, 2018

https://howlingpixel.com/i-en/Blanche_Ostertag

giovedì 17 gennaio 2019

Il potere della pubblicità: la storia di Birò e Bich

1960 Raymond Savignac


Molte sono le informazioni che si possono trarre dall’osservazione di un manifesto pubblicitario, da quelle sociologiche a quelle storiche o artistiche, financo a quelle materiali sulle tecniche con cui sono stati realizzati i manifesti stessi.
Ci sono poi manifesti che possono raccontare delle vere e proprie storie, come il caso della penna a sfera commercializzata dal marchio Bic.
La penna a sfera nasce da un’idea scaturita nella mente dell’ungherese Laszlo Birò, personaggio poliedrico con il pallino delle invenzioni (*) e giornalista di professione, che riuscì a mettere assieme un’esigenza pratica - non sporcarsi le mani ogni qual volta doveva scrivere, ossia sempre – con l’osservazione del gioco di alcuni bambini.
Con un po’ di fantasia è possibile immaginare Birò che, attratto dal vociare di alcuni bambini che giocano in cortile, inizia ad osservare il loro gioco, le biglie. Ed è proprio quel semplice e antico gioco a dargli la prima illuminazione: con abili e veloci movimenti i bambini facevano roteare le piccole sfere e queste, dopo aver attraversato pozzanghere fangose, lasciavano dietro di loro una scia colorata, proprio come quando si fa scorrere la penna intinta di inchiostro su un foglio.
Birò però intuì fin da subito che l’inchiostro che comunemente usava per scrivere con la penna stilografica non poteva andar bene per una penna a sfera perché era troppo liquido e mai avrebbe intinto la sfera in modo tale da lasciare un segno forte e deciso sulla carta. Così chiese aiuto al fratello Gyorgy che con la chimica ci sapeva fare. Gyorgy iniziò quindi a studiare un particolare inchiostro che fosse vischioso al punto giusto in modo che, caricato in quella speciale cartuccia inventata dal fratello, potesse rimanere attaccato alla sfera nel suo roteare. Fu così che venne inventata la prima penna a sfera.
1952 Raymond Savignac
Laszlo intuì fin da subito che quell’idea non solo avrebbe modificato il modo di scrivere, senza più intingere il pennino nel calamaio, ma avrebbe potuto fargli guadagnare un bel po’ di soldi. Un’idea tanto rivoluzionaria che doveva, senza indugi, proteggere nell’unico modo che la legge gli consentiva: depositando il brevetto. Come si può ricavare dai documenti ufficiali, il 15 giugno 1938 la penna Biro venne registrata all’ufficio brevetti sia dell’Ungheria che della Gran Bretagna.
1938, un anno funesto per quanti come i fratelli Birò avevano origini ebree. La promulgazione della leggi razziali da parte del Terzo Reich portò molti ebrei, con discrete disponibilità economiche, a fuggire in luoghi dove le loro origini non potessero essere motivo di persecuzione. Fu così che i due fratelli decisero di sbarcare in Argentina con le loro valige piene dell’occorrente per fabbricare penne a sfera.
Ma le cose non andarono come aveva previsto Laszlo. La produzione di quell’oggetto tanto semplice richiedeva un apprezzabile impegno economico e quindi la penna a sfera non poteva essere venduta a prezzi popolari. Il prezzo unitario di quell’utile oggetto però non preoccupò minimamente il governo britannico che invece riuscì a cogliere invece l’aspetto pratico di tenere una penna sfera nel taschino delle giacche piuttosto che una penna stilografica. Fu così che nel 1943 commissionò a Birò la fornitura di ben 30.000 pezzi che avrebbe distribuito ai suoi militari.
Birò, mente creativa e perfezionista, non si fermò però al prototipo venduto agli inglesi e continuò a sperimentare nuove soluzioni, tanto che a fine guerra riuscì a dare avvio alla nuova produzione di penne a sfera con il marchio di Birome.
Nonostante l’impegno e il continuo studio per migliorare quella penna tanto innovativa, Laszlo Birò però non riuscì mai a far decollare la sua produzione, vuoi per un cattiva campagna pubblicitaria per farla conoscere, vuoi per i costi di produzione ancora troppo elevati per rendere quell’idea veramente popolare.
Arriviamo così all’inizio del 1950 quando Birò ricevette la telefonata del marchese Marcel Bich che gli offriva una discreta somma di denaro per la cessione del brevetto di quella penna tanto innovativa. Inizialmente Birò tergiversò, ma poi cedette.
Già nel dicembre dello stesso anno la nuova penna Bic iniziò ad essere venduta nei negozi francesi e l’anno successivo conquistò anche il mercato belga.
La strada del successo della penna Bic da questo punto in poi fu tutta in salita: nel 1952 divenne penna ufficiale della principale kermesse sportiva della Francia, il Tour de France, e negli anni successivi divenne oggetto di largo consumo in molti altri paesi europei.
Arriviamo poi al 1960, anno in cui venne realizzato il cartellone che ha ispirato questo racconto. La penna a sfera Bic – che molti chiamavano ancora semplicemente penna biro – fu protagonista di un cartellone disegnato dal bravissimo Raymond Savignac: uno scolaro con tanto di pantaloni al ginocchio e un’enorme testa a forma di sfera. Una pubblicità che divenne celeberrima, che colorò per molti anni i muri di tantissime città e che, proprio per la sua capacità di attrarre l’attenzione, divenne anche il marchio che ancora oggi caratterizza il marchio Bic.

(*) sua l’invenzione del cambio automatico delle automobili che nel 1932 vendette alla General Motors.

Silvia Rizzato

sabato 27 ottobre 2018

La Domenica del Corriere in panchina. Il manifesto di Negri e Confalonieri (1960)



Confalonieri-Negri, Domenica del Corriere (1960)
Nel 1960 lo Studio Negri e Confalonieri realizza un manifesto per la Domenica del Corriere che può essere letto come una sorta di "gioco dei rimandi".
Il settimanale illustrato, fondato nel 1899 e venduto in allegato al Corriere della Sera, raggiunge in quei primi anni Sessanta il milione di copie vendute, piazzandosi al primo posto tra i periodici, quasi doppiando Oggi, il secondo in classifica. Questo balzo in avanti coincide con la direzione di Dino Buzzati, a cui nel 1954 viene affidato il compito di ammodernarlo. Dal punto di vista giornalistico, egli trasforma il periodico nel luogo dove arrivano a scrivere le migliori firme del giornalismo italiano, tra cui Indro Montanelli, cambiando radicalmente l'approccio dell'epoca precedente, quando gli articoli non erano affidati a professionisti, ciò per un'idea di presunta garanzia di genuina interpretazione degli umori popolari.

Al rinnovamento giornalistico non corrispose un ripensamento della veste grafica, che restò rigorosamente legata alla tradizione: prima e ultima di copertina disegnate, con illustrazioni tratte dai fatti di cronaca della settimana. Per quarant'anni, fino al 1945, fu Achille Beltrame la firma della Domenica (celeberrime le sue tavole che raccontavano la vita in tricea durante la prima guerra mondiale), poi avvicendata da quella, altrettanto nota, di Walter Molino.
Diversamente dai molti periodici che nascono in questo periodo (da Oggi a Epoca) la nuova Domenica del Corriere non adotta la copertina con immagini fotografiche, che in quell'epoca divengono prevalenti non solo in campo giornalistico, ma anche pubblicitario, editoriale, spesso combinate a raffinate e ricercate ideazioni grafiche.

A Ilio Negri e a Giulio Confalonieri, esponenti di punta della straordinaria stagione di sperimentazione di arte grafica milanese, viene dunque affidato il compito di comporre un manifesto che sottolineasse il messaggio di modernità, di rinnovamento, dove però era irrinunciabile l'immagine di corporate identity, il marchio di una fortunata tradizione che aveva reso possibile la sopravvivenza del giornale per tutta la prima metà del secolo, attraverso due guerre mondiali.

Ed ecco allora che l'impaginato pubblicitario di Negri e Confalonieri, pulito ed elegante (si veda la coeva pubblicità per Cassina) viene architettato come un "gioco dei rimandi".
A cominciare dallo slogan riportato in calce; «è sempre stata la più bella», che non è altro che il refrain dell'ottocentesca canzone popolare dedicata alla bandiera tricolore, a sottolineare il legame nazionale tra il "glorioso" settimanale e la storia del Paese.
Norman Rockwell, Girl reading The Post (1941)
Un altro elemento legato alla tradizione è costituito dal lettering di gusto floreale della testata del giornale. Una riproposizione che certo non corrispondeva con le molteplici sperimentazioni sui font di quegli anni, a cui in particolare Negri contribuì, essendo uno degli otto designer che nel 1965 fece parte del gruppo di ricerca della Fonderia Nebiolo da cui scaturì il font "Forma".
Nonostante i "paletti", i due grafici riescono ad ideare una rappresentazione moderna e raffinata. Il richiamo iconografico è senz'altro riconducibile a Norman Rockwell, artista e celeberrimo illustatrore dell'americano The Saturday Evening Post per il quale realizzò, tra il 1916 e il 1963, 300 copertine.
Il confronto è innanzitutto con Girl Reading the Post, copertina illustrata del 1 marzo 1941. La tecnica disegnativa di Rockwell raggiunse negli anni Cinquanta una tale perizia tecnica da rendere le sue illustrazioni indistinguibili da una foto (Rockwell molto spesso realizza le proprie opere pittoriche partendo dallo scatto fotografico, cosa che lo accomuna con gli illustratori delle pin-up girls). Negri e Confalonieri si ispirano a quel modello di ottimismo e divertimento, ma anche di rigorosa geometria della composizione. Scelgono di farlo con una nitida foto in bianco e nero, un still life della domenica mattina: su una panchina sospesa nel bianco omogeneo del fondo (anche questo rimando rockwelliano) è seduto un gruppo familiare, mamma, papà e bambino al centro, elegantemente vestiti, come si addice al giorno di festa, immersi nella lettura della Domenica. I loro volti sono celati dalla copertina, disegnata e sfavillante di colori: si tratta del numero apparso in edicola il 27 settembre 1959, in cui Walter Molino illustrava da un lato l'atterraggio sulla Luna della sonda spaziale sovietica Lunik II e dall'altro una divertente scena avvenuta al Circo Togni all'interno della gabbia dei leoni.

Roberta Rizzato



giovedì 20 settembre 2018

Educational Day al Museo Nazionale Collezione Salce




Il giorno 3 ottobre alle ore 15, con replica il 10 ottobre, si terrà presso il Museo Nazionale Collezione Salce l'Educational Day, giornata di presentazione della nuova mostra "Illustri persuasioni. Capolavori pubblicitari dalla Collezione Salce. Verso il boom 1950-1962" - che aprirà il 28 settembre - , dedicata agli insegnanti.

Per informazioni:
heritageitaly@gmail.com
oppure chiamando al 3402814124

https://www.time-to-lose.it/museo/educational-day-museo-salce-treviso.html

martedì 26 giugno 2018

I professori di disegno dell'Istituto Tecnico "J. Riccati"



La firma su un quadro – in questo caso quella di “e. frescura” - e i dati anagrafici dell’autore che non si riescono a trovare: è così che nascono i tormentoni, causati dall’oblio biografico e che spingono gli studiosi a cercare ovunque pur di venire a capo dell'enigma.
Ma spesso succede che cercando una cosa, si finisca per trovarne un'altra.
È il caso della cartellina “professori di disegno" contenuta nella busta 9 dell'Archivio della Provincia di Treviso conservata presso l'Archivio di Stato di Treviso.
È una cartellina che riporta a tempi lontani, ad atmosfere da libro Cuore, quando i maestri, e gli insegnanti in genere, rivestivano un ruolo fondamentale per la formazione delle giovani generazioni.
Sono documenti che descrivono uno spaccato di vita scolastica inconsueto, quello dell'Istituto Tecnico Riccati, oggi noto in città per aver formato diverse generazioni di ragionieri ma che nel primo quarto del Novecento era la scuola di riferimento per chi aveva buone propensioni artistiche – propedeutica per molti studenti che volevano accedere all'Accademia di Belle Arti di Venezia – o interesse per l'edilizia.
Per questo, avere dei bravi insegnanti di disegno era fondamentale, senza alcun tipo di favoritismo se gli studenti frequentavano i corsi diurni, serali o domenicali. Tutti dovevano poter godere delle stesse opportunità e tutti dovevano avere insegnanti di prim'ordine.
Negli elenchi dei “professori di disegno” assunti negli anni scolastici dal 1906 al 1909 si possono quindi trovare i nomi sia del professor Pavan Beninato Giuseppe, pittore di ispirazione accademica di cui si conservano due dipinti presso i Musei Civici trevigiani, che Giorgio Martini (Oderzo, ? - Treviso, 1909), padre del più famoso Alberto e maestro dell'omonimo Arturo.
Dagli stipendi dichiarati dei due professori si evince che il titolare della cattedra principale, quella diurna, era Giorgio Martini professore di disegno al Riccati fin dal 1879, che guadagnava 2.000 lire all'anno, mentre Pavan Beninato, il cui monte ore annuale era decisamente inferiore a quello di Martini, guadagnava 600 lire annue.
Nel 1910 venne poi chiamato a sostituire Giorgio Martini, venuto a mancare proprio durante l’anno scolastico 1909-1910, il professor Arturo Olivotti di Venezia. Questa assunzione in cattedra fu particolarmente sentita in città, tanto da ottenere un piccolo spazio nelle colonne de Il Gazzettino di Treviso del 21 gennaio 1910 con un articolo dal titolo Hanno trovato il professore. E proprio durante la sua permanenza a Treviso il professor Olivotti ebbe modo di scrivere la sua Guida tecnico-pratica per lo svolgimento del programma di disegno negli Istituti Tecnici, data alle stampe nel 1911. La sua supplenza presso l'Istituto Tecnico Riccati si protrasse anche nell'anno scolastico 1910-1911, ma già l'anno successivo venne assunto nella cattedra principale di disegno il maestro Giulio Ettore Erler (Oderzo, 1876 - Treviso, 1964). Ad affiancare Erler nell’insegnamento del disegno fu chiamato Annibale Fiorin e dal 1914 Ezio Frescura, all’anagrafe Alessio Ortolan (Calalzo di Cadore, 1872 – Treviso, 1926).
Giulio Ettore Erler
Erler fu, come Frescura, un pittore ancora legato a quel mondo accademico che stava cedendo il passo a nuove idee e nuove forme di espressione artistica. Non per questo però lo si può annoverare tra gli artisti minori o “antiquati”, poco presenti nella vita cittadina. Erler visse pienamente la città che lo adottò frequentando attivamente e proficuamente l'ambiente artistico trevigiano. E, ancora una volta emulando Frescura, non mancò di esprimere grande generosità al mondo dell’arte trevigiana. Ezio Frescura aiutò Luigi Serena in un periodo di difficoltà come ricorda Sante Cancian in occasione dell’apertura della mostra del 1927 per celebrare l’arte del maestro: «ora così affettuosamente onorato, era morto a Treviso – dopo una vita di stenti – in una soffitta di Via Barberia, lasciando come patrimonio liquido cinque lire, avute in prestito da un altro pittore: il cadorino Ezio Frescura» (https://santecancian.wordpress.com/info/). Giulio Ettore Erler invece anticipando di tasca sua le spese per la realizzazione di un'esposizione di artisti trevigiani che si sarebbe dovuta svolgere nel 1922. Così infatti si trova scritto nella rubrica del Cagnan, il noto settimanale satirico artistico trevigiano, I ne comunica del 20 agosto: «che el prof. Erler staga organizzando una nova mostra d'arte anticipando de scarsela la soma ocorente per le prime spese».
La frenesia professionale e artistica di Erler però non tardò a presentargli il conto: sul finire del 1926 il maestro opitergino fu costretto a chiedere un congedo di due mesi dall'insegnamento, a decorrere dal giorno 3 dicembre, per malattia. Nel certificato medico si legge che Erler aveva 50 anni, era pittore e insegnante di disegno ed era affetto da esaurimento «dipendente da una eccedenza di lavoro e occupazione».
A sostituire Erler come supplente nell'incarico di insegnante di disegno, venne chiamato Clemente Collelli che rimase nell'istituto trevigiano fino alla fine dell'anno scolastico del 1927.
Frescura invece insegnerà al Riccati per tutto l’anno scolastico 1924-1925, impartendo lezioni di disegno e prospettiva anche al giovane Amintore Fanfani, prima di diventare direttore della scuola di Arti e Mestieri di Treviso.
L’atmosfera creativa che si respirava a Treviso nel primo quarto del Novecento era sicuramente di prim'ordine. La sensibilità per la nuova forma d’arte, in bilico con quello che comunemente va sotto il nome di artigianato artistico, era pari a quella che stava crescendo nel resto d’Europa e che guardava con grande interesse a quanto stava succedendo in Gran Bretagna, in particolar modo alla scuola di Glasgow, dove si era sviluppato quel fertile movimento d’idee che si riconosceva sotto il nome di Arts and Craft (a titolo di esempio basti ricordare la fucina di idee e produzione artistica uscita dalle trevigiane fornaci Gregory).
Scuole di Arti e Mestieri, nei primi del Novecento, nacquero un po' ovunque nella provincia di Treviso (tema che peraltro avrebbe bisogno di uno studio approfondito), creando l’esigenza di assumere i migliori maestri e artisti che si trovavano su piazza trevigiana.
È in questo clima particolare di formazione di giovani generazioni, che non potevano essere scevri dalla grande lezione del passato per avere uno sguardo originale sul futuro, che si colloca l'esperienza dell'Istituto Tecnico Riccati. Una scuola che non formava solo personale che sapesse destreggiarsi tra i meandri burocratici ma che cercava di dare degli input affinché fosse la creatività a dare il meglio di sé stessa.
Da qui l'assunzione nel corpo docente di insegnanti come Giorgio Martini, Giuseppe Pavan Beninato, Giulio Ettore Erler o Alessio Ortolan, alias Ezio Frescura.

Silvia Rizzato

Si ringrazia Lorenzo Cecchel dell’Archivio di Stato di Treviso per avermi segnalato la cartellina dei “professori di disegno” e per la fondamentale collaborazione nella risoluzione del “caso Frescura”.

lunedì 4 settembre 2017

OPERA LIRICA E CARTELLONISMO: ADOLF HOHENSTEIN E L'"IRIS" DI PIETRO MASCAGNI


La predilezione di Adolf Hohenstein per i lampi di rosso che sembrano "avvampare" molte delle sue realizzazioni grafiche, si trasformano, in uno dei suoi manifesti più conosciuti, in afflato drammatico e simbolico. Si tratta del manifesto che l'artista realizzò per il debutto dell'opera lirica - musicata da Pietro Mascagni su libretto di Luigi Illica – Iris. L'opera debuttò il 22 novembre 1898 al Teatro Costanzi di Roma, con protagonista una della cantanti più famose dell'epoca, la soprano di origine rumene Hariclea Darclée, conosciuta per essere stata la prima interprete di Tosca di Giacomo Puccini.
Il manifesto raffigura una fanciulla seminuda che, fluttando nell'aria, si staglia su di uno sfondo dorato, affiancata da una spira di fumo dentro cui si disperdono tre teste maschili, evidentemente giapponesi; ai suoi piedi è tutto un fiorire di magnifici iris viola. L'efficacia, oltre che l'eleganza, di questo manifesto non potrebbe essere maggiore: pochi elementi che racchiudono l'essenza stessa dell'opera, la prima in Italia, poi seguita dalla più famosa Madama Butterfly di Puccini, che si richiama apertamente a quella moda nipponica che già da qualche anno aveva investito le arti figurative e la letteratura. La trama dell'opera, da molti giudicata farraginosa e in certi tratti intelleggibile – motivo forse della sua scarsa fortuna nella seconda metà del Novecento, diversamente dalla osannata Madama Butterfly -, narra la classica vicenda della bella e ingenua ragazza circuita e poi rapita dai "vecchioni" e che, al rifiuto di concedersi, viene prima rinchiusa in una casa di malaffare e poi indotta al suicidio. E qui il melodramma raggiunge i suoi vertici poetici, sottolineati musicalmente dall'Inno del Sole che è sia ouverture dell'opera che catartica chiusura, laddove la ragazza si getta in un dirupo e il sole splendente in cielo la trasmuta in uno dei fiori emblema stesso dell'Art Nouveau, l'iris, simbolo di vittoria per i popoli orientali. Una sorta di assunzione in cielo in chiave liberty e simbolista.
La produzione di quest'opera lirica nasce da una precisa volontà del vulcanico editore milanese Giulio Ricordi, nell'intento di far giungere anche in Italia la moda per l'esotismo orientale, già ampiamente percorso da vari musicisti europei. L'operazione venne concepita, come si suol dire, "alla grande", creando tutti i presupposti affinchè il debutto venisse percepito come un grande e coinvolgente momento culturale, carico di aspettative. Egli mise in moto, a tal fine, tutta la sua "scuderia" grafica, a cominciare proprio dal direttore artistico, Adolf Hohenstein, che fu anche importante scenografo e costumista, e non soltanto per quest'opera di Mascagni. Hohenstein ideò sia il manifesto per il debutto romano, ma anche, assieme a Giovanni Mataloni, una serie di cartoline-ricordo che raffiguravano varie scene dell'opera; furono, inoltre, ideati e stampati calendarietti, locandine, chiudi lettera, copertine di spartiti musicali, tabelle in latta, il libretto-programma di sala e anche un libretto da vendere in edicola nei giorni precedenti il debutto. Si potrebbe ben affermare che per questa importante occasione musicale, si sia applicato il concetto propriamente liberty, dell' oevre globale: ogni elemento correlato all'evento venne scrupolosamente studiato e proposto al pubblico – prassi questa già consolidata, ad esempio con il sodalizio tra la divina Sarah Bernhardt e Alfons Mucha, che ad iniziare dal 1894 era divenuto l'incontrastato ideatore di manifesti, scenografie e costumi per ogni spettacolo della grande attrice.

Una perfetta operazione di marketing ante-litteram, quella per il debutto di Iris, che aveva lo scopo di garantire successo e positivi riscontri. L'anno successivo Iris raggiunse il tempio della lirica: il Teatro La Scala di Milano dove, sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini, Mascagni bissò il successo romano. In quell'occasione la realizzazione del nuovo manifesto fu affidata a Leopoldo Metlicovitz, che si assestò in una
proposta artistica molto più convenzionale senza raggiungere l'efficacia sentimentale e di armonia degli elementi rappresentati da Hohenstein, al quale certamente il pieno coinvolgimento nell'operazione fornì e stimolò chiavi rappresentative di maggiore levatura artistica.

Roberta Rizzato

lunedì 21 agosto 2017

Fisso l’idea. Un messaggio pubblicitario che usa la psicologia come arma di persuasione.



 Dudovich è giovanissimo quando realizza questo manifesto, poco più di vent'anni; eppure riesce a fare una sintesi perfetta della lezione artistica appresa a Milano presso le Officine Grafiche Giulio Ricordi, intuendo che la pubblicità è fatta anche di messaggi subliminali, di sottotesti che possono andare oltre alle parole o alle immagini esplicitate.
Per questo cartello Dudovich sceglie un formato di piccole dimensioni, verticale e una composizione leggermente disassata a destra. In esso c’è tutta l’influenza dei grandi maestri che lo formarono a Milano: se da Metlicovitz deriva la scelta di adottare una figura classica, decisamente michelangiolesca, per lanciare il messaggio pubblicitario scritto da una mano intrisa nell’inchiostro, da Hohenstein prende senza ombra di dubbio quegli elementi Liberty che, trattati quasi fossero un negativo scegliendo di lasciarli bianchi come la carta, escono quasi dal manifesto stagliandosi sulla più decisa tinta nera del moderno inchiostro e dello sfondo seppia, che ricorda invece il più antico liquido usato per scrivere, divenuto però ormai obsoleto e poco al passo con i tempi.
Un manifesto che non poteva lasciare indifferenti. Fortissimo è l’impatto di quella figura di spalle, inginocchiata su una sola gamba che sembra uscire dall’inchiostro per portare il suo importante messaggio: l’inchiostro fissa, nero su bianco ciò che si potrebbe volatilizzare o deformare con il passare del tempo. Un messaggio antico, se vogliamo, che non si discosta molto dal proverbio latino verba volant, scripta manent. Ma ancor più forte è proprio il messaggio lasciato sul muro dal giovane uomo: fissa l’idea, che va oltre alla funzione dell’inchiostro, ma che entra più nello specifico del moderno pensiero. E questo può essere confermato osservando le due macchie di colore giallo - prive di contorno come Dudovich aveva appreso dalla lezione di Laskoff – che fanno pensare ai fumi che possono uscire dalla mente che sta ragionando.
Un cartello che quindi va oltre al messaggio pubblicitario, ma che potrebbe sintetizzare anche le contemporanee teorie psicoanalitiche: fissare l’idea significa non poterla più modificare e rendere concreto e reale ciò che si ha in mente. Sia che si tratti di un’idea progettuale che un pensiero che arrivi dall’inconscio. E questo lo si può fare solo se si usa l’inchiostro!

Silvia Rizzato