mercoledì 7 dicembre 2016

Quando Arturo Martini aprì un negozio

Ritratto di Memi Zanchetta
 E’ di questi giorni il sorprendente ritrovamento di un’opera giovanile di Arturo Martini che si riteneva perduta (in alternativa, essa veniva identificata con l’Ubriaco, ora al Museo Civico Bailo di Treviso). Si tratta del Ritratto di Memi Zanchetta, busto in gesso scolpito nel 1910, che presto sarà visibile nel percorso martiniano all’interno del nuovo Museo Bailo in Borgo Cavour a Treviso.
La notizia dà l’occasione per ricordare un episodio della vita del grande scultore trevigiano, che aiuta a ricostruire un clima culturale ma anche sociale della Treviso d’inizio Novecento. Il fatto si colloca nello stesso anno in cui il giovane Arturo ritrasse Memi Zanchetta.
Maternità

Nel 1910, di ritorno dal viaggio-studio a Monaco di Baviera, il ventenne Arturo Martini, artista già riconosciuto e apprezzato non solo entro le mura cittadine, si inventò la professione di gallerista sotto i portici del Calmaggiore, la via principale della sua città natale. La cronaca dell’epoca registra questa nuova impresa, così come soleva fare per qualsiasi iniziativa che potesse far avanzare il progresso commerciale o industriale in questa piccola città di provincia, investita anch’essa dal fervore di trasformazione in atto ovunque, e non solo in Italia.
Il soggiorno monacense, finanziato dall’industriale delle ceramiche artistiche Gregorio Gregori, uno dei suoi principali mentori in questa fase di formazione artistica, consentì al giovane scultore di entrare in contatto diretto con artisti che senz’altro incisero sulle sue future scelte stilistiche, e prova ne furono le opere esposte nel nuovo negozio, ad iniziare dalla scultura Maternità.

Può apparire strano che un giovane e promettente artista pensasse di dedicarsi a un'attività commerciale, aprire un negozio che, come si legge negli articoli de Il Giornale di Treviso, doveva servire “per la raccolta di oggetti d’arte, quadri, bozzetti”. Ma l’utilizzo delle vetrine cittadine per esporre le novità artistiche degli artisti locali – ma non solo -, era una pratica in uso ormai da qualche anno a Treviso; una pratica che precedette alla prima Esposizione d’Arte Trevigiana del 1907, mostra che così grandi entusiasmi suscitò nella popolazione. In quell'occasione i trevigiani poterono non solo ammirare gli oggetti d’arte esposti ma anche di acquistarli. E i lunghi elenchi de Il Giornale di Treviso, che davano conto “chi comprasse cosa” in occasione delle Esposizioni d’arte trevigiane, ne sono testimonianza: lo scopo era senza dubbio quello di evidenziare la schiera di collezionisti, o anche solo amatori d’arte, propensi all’investimento artistico, ma altresì di innescare un effetto emulativo. Una sorta di “rincorsa all’acquisto di qualità”. Nel 1910 questo slancio commerciale venne di certo intuito da Gregorio Gregori, che divenne finanziatore della nuova attività del Martini. Da buon imprenditore, di certo annusò questo clima di interesse, e quando si presentò l’occasione non se la lasciò sfuggire, percependo quella spiccata propensione della nuova (e vecchia) borghesia trevigiana ad investire nell’arte. E il giovane scultore non si ritrasse. Anzi, era il "commesso perfetto" per questa nuova impresa.
Per quanto riguarda la citata consuetudine dei negozi trevigiani a cedere spazi delle loro vetrine, va registrato che tra i più assidui "prestatori" di angoli artistici vi erano le migliori sartorie alla moda collocate sulle vie più frequentate: Negrin e Ungaro, Pozzi e Barbaro. E anche in questo caso, puntigliosi trafiletti nei quotidiani davano conto degli artisti e dei titoli delle opere esposte in questi luoghi del commercio. Mettere insieme queste piccole cronache d'arte, queste presenze artistiche nei luoghi del commercio, potrebbe fornire l’occasione per ricostruire un ambiens non solo artistico ma, in senso più ampio, culturale. Ricordiamo che con la stessa scrupolosa attenzione, si faceva la cronaca di ogni nuovo negozio che apriva i battenti, elencando i titolari, gli artigiani e gli artisti coinvolti nell’impresa.
L’apertura, quindi, di una nuova attività commerciale gestita dal giovane artista era sì un'operazione “artistica” finanziata da un mecenate per il quale Martini attivamente lavorò presso l’atelier della sua azienda dal 1909 al 1911, ma essa si inseriva appieno in quel “clima Liberty” - parola ricorrente colonne giornalistiche - la cui essenza principale era non solo quella di ridare valore e sostanza alle arti decorative, e conseguentemente anche alla produzione seriale, ma anche di decretare la contaminazione proficua con il commercio e con l’industria.
Per dare un tocco di internazionalità a questo breve intervento, e per far comprendere la naturale correlazione tra produzione artistica e commercio esistente in questi anni, riportiamo quanto scriveva nel 1900 Alfredo Melani a proposito di Henry Van de Velde, uno degli esponenti più importanti dell’Art Nouveau: «Andate a Londra, non avete che a fare un giro in Regent Street, se volete inebriarvi di cose della nostra arte; e andate a Bruxelles, a Monaco, a Berlino, a Parigi. A Parigi il Van de Velde, non lungi dall'Avenue de l'Opéra, in via dei Petits-Champs, ha un magazzino in cui sono esposti, per la vendita, una quantità di gioielli, lampade, mobili da lui immaginati; perocchè il Van de Velde, come già il Morris in Inghilterra, dà il nome e l'opera ad una Società d'Arte Industriale, di cui il magazzino dei Petits-Champs è una sede filiale della casa principale, la quale trovasi a Bruxelles.» (Alfredo Melani, L'arte industriale nuova. L'origine e il proposito dell'arte nuova. Lavori in ferro battuto inArte Italiana decorativa e industriale”, anno IX, dicembre 1900, n. 12)

Il Giornale di Treviso, 25-26 maggio 1910
Arte
Sotto i portici di Calmaggiore è stato aperto un nuovo negozio per la raccolta di oggetti d’arte, quadri, bozzetti; con lo scopo diretto a facilitare ai nostri artisti, specie ai giovani, il mezzo per far conoscere al pubblico ed agli amatori i loro lavori. Nella nostra città era sentito il bisogno di un simile negozio, che potrà inseguito ampliarsi in modo da diventare una piccola esposizione permanente. Al giovane scultore Martini che ha avuto la geniale iniziativa auguriamo lieto esito.


Il Giornale di Treviso, 27-28 maggio 1910
Esposizione d’arte trevigiana
Il nuovo negozio di oggetti d’arte aperto in Calmaggiore dal giovane scultore Arturo Martini è stato ieri visitato da intelligenti, amatori ed artisti ed autorità, ed i vari lavori ivi esposti piacquero e vennero apprezzati e lodati. In una breve scorsa abbiamo notato pregevoli quadri del pittore Antonio Furlanetto (Sera sul Sile, Le Alpi, Il mare, Panorama di Catania e vari Paesaggi), del prof. G. Pavan (Interno della chiesa di San Marco e Paesaggi), del Malossi (Porta Mazzini, Viali trevigiani e Paesaggio), del giovane e promettente Aldo Voltolin (Riflessi sotto le fronde, Mulino sul Sile, Prato di fiori, Farfalle intorno al lume, Piazza Erbe, Viale nel boschetto, Prato di fiori rosa, Studi vari di Treviso, etc.). Sono pure esposti altri bei lavori della sig.na Italia Zottarel, del Bianchini, del Rigobon, del Cacciapuoti, alcune pregiate caricature del Fabiano, Acquarelli ed impressioni veneziane dell’Apollonio, etc. Del Martini vi sono alcuni lavori di scultura (Il poeta, Dopo la catastrofe, Dolore, L’ubriaco, Maternità, etc.) ed inoltre sono pure esposti bellissimi esemplari delle terre cotte del Gregori: vasi per piante, busti di sante, vasetti per fiori, gingilli da tavolo, ferma carte, mascheroni, calamai, etc. etc. Altri lavori dei nostri artisti trevigiani andranno ad arricchire la mostra che certamente man mano aumenterà d’importanza.

Roberta Rizzato






domenica 24 luglio 2016

Umberto Di Lazzaro (1898-1968), cartellonista degli aerei



1920 Coppa Bonmartini
Questa storia ha inizio qualche anno fa quando la Soprintendenza ci diede un incarico per compilare 400 schede Autore all’interno del progetto di catalogazione della Raccolta Salce.
Una lista di 400 nomi, acronimi e pseudonimi che avevano bisogno di identità anagrafica oltre che professionale.
Per alcuni artisti non fu difficile trovare i dati richiesti dalla schedatura, consultando banche dati di musei o collezioni, oppure pubblicazioni online.
1927 Coppa Schneider
Per altri invece, supponendo il luogo di nascita – la ricerca è fatta anche di colpi di fortuna -, siamo ricorsi  agli Uffici Anagrafe, come nel caso di Gino Francioli, Ester Sormani, Bruno Bellesia, Giulio Giuli, Delfo Previtali ecc.
Divenne invece quasi un tormentone, la ricerca riguardante l'identità di un gruppetto di artisti; una sfida impossibile per capire chi fossero e in che ambito avessero lavorato. Fu il caso di Emka, cartellonista molto attivo e con guizzi di originalità  - tra i tanti lavori realizzati creò l'immagine icona dei Baicoli della Colussi - dietro il cui pseudonimo potrebbe celarsi il pittore veronese Manlio Cappellato (ci ripromettiamo in un prossimo futuro di tornare a occuparci di lui per dare eventuale conferma della nostra ipotesi); Mario Rossi, famoso per i suoi cartelloni della Motta o della China Martini; Giorgio Viola e tanti altri.
1928 Varie forme di aeroplani moderni
Fra questi “casi impossibili” rientrava anche Umberto Di Lazzaro, attivo per poco più di un decennio a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, con una produzione nota che non arriva a quindici cartelloni. E questo nonostante che in ogni pubblicazione o esposizione di aeropittura egli venga citato.
Per chi fa ricerca la resa è sempre difficile da accettare e spesso senza un motivo ci si trova, anche a distanza di tempo, a spiluccare in qualche archivio o banca dati per vedere se può emergere qualche nuova informazione.
1928 Nomenclature generali dell'aeroplano
Il fato ha voluto che da un rimando all’altro di notizie si arrivasse a Trivento, comune della provincia di Campobasso dove ebbero i natali i genitori di Eldo Di Lazzaro, cantante divenuto famoso negli anni Trenta-Quaranta per aver composto canzoni come Chitarra Romana.
Tutte le notizie relative a Eldo di Lazzaro e alla sua famiglia sono raccolte nella banca dati dell’archivio MeMo e proprio in questo archivio si trova anche un Umberto Di Lazzaro, nato a Roma il 30/08/1898 e morto nella capitale il 20/06/1968.
1927 Giro aereo d'Europa
Con pazienza, sfogliando tutti i record dei Di Lazzaro, è stato possibile ricostruire l’intero nucleo famigliare di Umberto.
Figlio di Ferdinando e Degenia Siliprandi, Umberto ebbe sei fratelli, il più anziano, Erasmo nacque a Ravenna nel 1885, Elvira e Raniero a Trivento nel 1888, e gli altri, a partire da Riccardo nel 1892, nacquero tutti a Roma, (Ottorino 1895 e Irma 1897).
Ciò che mancava a questo punto era sapere la professione di Umberto e gli amministratori della banca dati MeMo hanno confermato che nei documenti in loro possesso Umberto è registrato come “disegnatore”.
1931 Trasvolata Italia-Brasile
Non sappiamo in quale scuola abbia acquisito tale titolo ma probabilmente si trattava di un istituto tecnico dove poté assecondare la sua passione per gli aerei che disegnava con estrema perizia e in modo molto realistico.
Il suo primo cartellone conosciuto è quello realizzato per la Coppa Bonmartini nel 1926 dove l’opera di Di Lazzaro è ancora profondamente condizionata dallo stile realistico dei cartellonisti di inizio secolo: un ragazzino con pantaloni corti rincorre il suo modellino prima che questo tocchi terra.
Ma già nel 1927, quando si cimenta con la realizzazione del cartellone
per la Coppa Schneider che si svolse
1933 Trasvolata del decennale
a Venezia, Di Lazzaro inizia a dar mostra di conoscere i contenuti della nuova arte che si stava imponendo al grande pubblico, quell’aeropittura che aprirà la strada al secondo futurismo. Se il Pegaso imbizzarrito tra le acque dell’Adriatico è ancora raffigurato in modo quasi “documentario”, nonostante la figura mitologica incarni perfettamente il nuovo spirito artistico che avanzava, indomabile e sprezzante del pericolo, è l’idrovolante rosso che sfreccia nel cielo blu, con sbaffi che sembrano ghiaccioli formatisi per la velocità e l’alta quota raggiunta dal velivolo, a introdurci nel mondo futuristico della modernità.
Di Lazzaro però, nonostante questo acerbo guizzo futurista, non riuscirà mai ad essere annoverato tra gli aeropittori e di fatto non parteciperà mai a nessuna esposizione dedicata alla nuova arte.
1933 Trasvolata del decennale
Nei manifesti successivi a quello della Coppa Schneider infatti torna a prevalere la sua formazione tecnica, dove il gusto per il dettaglio dell’aereo prevale sulla fantasia compositiva, come se non riuscisse a far suo quel quarto punto del manifesto degli aereopittori che enunciava: “dipingere dall’alto questa nuova realtà impone un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto”. Di Lazzaro di fatto non riuscirà mai veramente a prendere il volo verso una sintesi della rappresentazione perché a lui non interessava tanto una visione trasfigurata del mondo visto dall’alto quanto piuttosto la macchina per raggiungere quell’obiettivo.
1933 Crociera del decennale
Non a caso, nel 1928 realizzerà due cartelloni didattici sulla Nomenclatura Generale dell’Aeroplano e Varie Forme di Aeroplani Moderni e nel 1929 quando firma il manifesto del Giro Aereo d’Europa, è assente ogni riferimento al futurismo.
Difficile quindi assimilare l’arte di Di Lazzaro a quella di Fedele Azari, Giacomo Balla, Tullio Crali, Gerardo Dottori, Fortunato Depero e tanti altri.
1936 ca. Linee aeree italiane
Di Lazzaro alla fine si lasciò trasportare più dalla sua passione per l’aeronautica e la propaganda di regime che all’adesione a un movimento artistico che probabilmente sentiva estraneo.
Del 1931 è il manifesto della Trasvolata Italia-Brasile con protagonista Italo Balbo e del 1933 sono i manifesti della Trasvolata atlantica del Decennale - anche questa impresa compiuta da Balbo partendo dalla capitale italiana e raggiungendo New York in pattuglia con 25 idrovolanti - dove il carattere descrittivo è preponderante sulla fantasia, salvo in quello della Crociera aerea del Decennale in cui l’Italia è rappresentata dalla faccia del Duce scolpita sulla pietra bianca e gli Stati Uniti dallo skyline di New York che ricorda vagamente la lezione di Sant’Elia.
E’ solo nel suo ultimo manifesto conosciuto che Umberto di Lazzaro cerca di tornare alla lezione dei maestri futuristi, quel cartello realizzato attorno al 1936 per l’ENIT che pubblicizza le Linee Aeree Italiane. Due aerei stilizzati, uno rosso e uno bianco, si incrociano in volo, uno in fase di decollo e uno in atterraggio ed entrambi presentano le stesse roboanti scie di un mondo che corre, o meglio che vola a una velocità supersonica.
1927 Circuito dell'Atlantico
1931 Crociera Transatlantica
Cosa sia stata l’attività di Di Lazzaro dopo questo suo ultimo manifesto fino al 1968, anno della sua morte, non è dato ancora sapere. Forse ha assecondato la sua passione prediligendo il disegno meccanico degli aerei all’effimera arte passeggera della pubblicità.

(Silvia Rizzato)


venerdì 8 luglio 2016

Piccola precisazione su Palazzo Pola a Treviso

Ieri, il bibliotecario di Treviso Gianluigi Perino, mi ha segnalato una curiosità, cosa assolutamente normale per una persona con la sua passione per i libri e i loro contenuti!
Parlando di Palazzo Pola, di cui abbiamo scritto pochi giorni fa, mi ha fatto notare, citando il Michieli del 1938, come i pannelli che componevano le balconate dello stesso, fossero conservate al Victoria and Albert Museum di Londra.
Verificata la notizia, nel sito del museo londinese trovo pure la scheda dei pannelli (di cui proponiamo una foto).
Le notizie "tecniche" del pannello, riportano che è stato realizzato nel XV secolo - data compatibile con la realizzazione del palazzo che ricordiamo è del 1492 -; che l'artista che l'ha scolpito è sconosciuto e che il pannello è stato realizzato in pietra d'Istria.
Fin qui, nulla da eccepire.
Se poi si passa alla descrizione dell'opera però si legge che il pannello è stato disegnato e realizzato da certo Alfonso Lombardi, uno scultore nato a Ferrara nel 1497 circa e morto a Bologna nel 1537, città quest'ultima dove il Lombardi fu particolarmente attivo.
Risulta pertanto assai difficile che il Lombardi abbia realizzato questo pannello ... a meno che esso non provenga da Palazzo Pola.
Ben note sono le opere di Pietro Lombardo e della sua bottega, dove la raffinatezza di esecuzione era una sorta di marchio di fabbrica, ma si sa che spesso la realizzazione di dettagli come le balaustre (di fatto è sconosciuta la collocazione originaria) erano affidati a tajapria che lavoravano per la bottega dei maestri.
Vi proponiamo comunque la scheda del Victoria and Albert Museum, a cui abbiamo già segnalato l'imprecisione.
http://collections.vam.ac.uk/item/O163655/panel-unknown/
Buona lettura!

domenica 3 luglio 2016

Palazzo Pola in piazza dei Cerchi

Palazzo Pola, assieme alla dimora dei Bressa, era senz'altro tra i più belli edifici che Treviso potesse vantare.
Furono commissionati da due importanti famiglie, Pola e Bressa, che non erano orinde di Treviso e che entrambe videro modificati i loro cognomi originari, preferendo l'indicazione del luogo di provenienza.
Ricordiamo che i Bressa, originari dai territori bresciani, quando arrivarono a Treviso si chiamavano Bettignoli.
I Pola o Castropola invece, come si può intuire, provenivano dall'omonima città istriana e il loro cognome originario era Sergi. Si trattava di un'importante famiglia che vantava origini molto antiche, discendenti dalla gens Sergia romana, quegli stessi Sergi che tra il 25 e il 10 a.c. fecero costruire l'omonimo arco che ancora si può ammirare a Pola.
I Sergi intrattenevano stretti rapporti con il patriarca di Aquileia, tanto che nel 1294, per evitare le pretese veneziane sulla città, il patriarca li riconobbe come guida della città dando loro la possibilità di insediarsi nel Castro Polae che divenne, in forma contratta, il secondo cognome con cui si identifava la famiglia: i Castropola.
Quando nel 1331 il popolo di Pola si sottomise volontariamente al dominio di Venezia i Sergi dovettero abbandonare la loro città, riparando a Treviso dove, con il favore degli stessi veneziani, acquistarono prestigio e benefici.
Qui i Sergi, o i Castropola o semplicemente i Pola, entrano a far parte della nobiltà cittadina e, come i Bressa, decisero di far costruire un palazzo degno del loro rango.
Entrambe le famiglie decisero di affidare il progetto delle loro dimore a una tra le più importanti botteghe operanti a Venezia e nella terraferma della Serenissima: i Lombardo, famosi architetti e scultori originari dalla Val Brembana, il cui vero cognome era Solari.
I Bressa affidarono la progettazione al giovane Tullio, poco più che trentenne, mentre i Pola preferirono rivolgersi al più esperto Pietro, padre di Tullio.
A ben vedere i due prospetti dei palazzi, non possono esserci dubbi che entrambi presentino lo stesso "marchio di fabbrica", riscontrabile per esempio nella lunga serie di aperture centinate che contrassegna il salone passante dei due piani nobili e le aperture di sottotetto centinate.
Curioso rilevare gli anni di realizzazione dei due palazzi: 1493 palazzo Bressa, 1492 palazzo Pola.
E' inoltre interessante notare, riportando una parte del contratto di tajapiera trascritto da Gustavo Bampo nel suo Spoglio notarile, come le due fabbriche siano "cresciute" guardando i dettagli una dell'altra: "prometono el dicto m. Stefano et m. Bortolo simul et in solidum far le colone de i portegi de la sua casa cum suo volti de pria viva a muro de do prie soazadi de fuora come e quale de le balchonade de queli da puola (palazzo Pola)". In pratica, il figlio guardava a quanto realizzava il padre!
Ma tornando alla famiglia Pola, anch'essa artefice e rovina del proprio palazzo, visse un secondo periodo di grande splendore sul finire del Settecento quando i francesi invasero i territori della Dominante. In quel periodo, a capo della casata c'era Paolo Pola, di soli 24 anni, schierato pienamente dalla parte dei francesi tanto da ospitare nel suo palazzo cittadino sia i vertici dell'esercito transalpino che lo stesso imperatore Napoleone in visita a Treviso.
Caduto l'impero francese, a Treviso arrivarono gli austriaci e con essi anche l'inizio della fase discendente della famiglia Pola.
Sperperato buona parte del patrimonio per sostenere una vita sfarzosa durante la dominazione francese, nel 1853 la famiglia istriana si estinse dopo aver venduto buona parte dei suoi possedimenti, compreso il palazzo di città.
Nel 1842 infatti il glorioso palazzo Pola, decorato con dipinti di Bernardino Bisson, venne venduto all'industriale della carta Tommaso Salsa che, al posto di riconoscerne il grande valore artistico, preferì abbatterlo per costruivi il freddo edificio che ora ospita la sede della Banca d'Italia.
Una curiosità, prima di citare anche in questo caso il cronachista trevigiano Francesco Scipione Fapanni: quella che noi oggi conosciamo come piazza Pola, fino a inizio Ottocento era conosciuta come piazza dei Cerchi, ossia una traslazione del cognome originario dei Pola, ossia Sergi.
Come per Palazzo Bressa, Fapanni non perdona ai trevigiani di aver permesso lo scempio di distruggere due opere di tale importanza e così scrive:
"Ha osservato l'ab. Giovanni Pulieri, favellando con Agostino mio padre, nel febbr. 1844, e con altri, che, quando fu levata la Fontana delle do Tette dal palazzo del Veneto Podestà, tutto Treviso gridò ai profani pel sacrilegio, e nella distruzione di quella memoria: ed ora che fu tutto atterrato il secondo magnifico edificio, dopo  quello del Bressa, nessun lamentò il monumento perduto".

venerdì 24 giugno 2016

Fortuna e rovina di Palazzo Bressa a Treviso

Dietro alle fortune dei palazzi, ci sono sempre dei grandi uomini.
E dietro le rovine degli stessi ci sono sempre degli uomini, che hanno però una diversa sensibilità e una diversa visione delle cose, una ristrettezza mentale e una scarsa conoscenza della storia.
Perchè si sa che senza ricerca e conoscenza, difficilmente si riesce a tutelare un bene e a valorizzarlo.
Questo è il caso di Palazzo Bressa a Treviso, uno dei più bei edifici che la città potesse vantare.
La storia di Palazzo Bressa iniza con Venceslao da Bettignoli, vero nome della famiglia Bressa giunta a Treviso nel 1326 proveniente dal territorio bresciano. Non avendo avuto figli, Venceslao nel 1493 decise di costruire un palazzo che potesse ricordare ai posteri il suo passaggio nel mondo dei vivi.
Così, come riportato in molti documenti trascritti da Gustavo Bampo nel suo "Spoglio notarile" - conservato presso la Biblioteca Civica di Treviso - Venceslao diede avvio al cantiere assumendo maestranze di primo livello provenienti anche dalla vicina Venezia.
Le cronache riportano che lo splendido palazzo, di cui vediamo un'immagine tratta dal manoscritto di Francesco Scipione Fapanni, sia stato progettato dal noto scultore e architetto veneziano Tullio Lombardo.
E a ben vedere questo prospetto, si può anche credere che il progettista del palazzo non potesse essere un semplice mastro muratore ma si doveva riferire a qualcuno che ne sapeva molto di proporzioni e distribuzione di elementi architettonici!
Come si può leggere negli atti notarili riportati dal Bampo, i lavori proseguirono per diversi anni in un alternarsi di maestranze che con abile manualità realizzarono tutte le opere da lapicida (tajapria), da muratore e da falegname (marangon).
Quando nel 1499 Venceslao Bettignoli stese il suo testamento, il palazzo non era ancora ultimato, e sarà suo nipote Giovanni Antonio a portare a compimento l'opera iniziata dallo zio.
E' superfluo sottolineare, visto il palazzo che i Bressa possedevano nell'odierna Piazza della Vittoria, che questa famiglia non solo era una delle più importanti di Treviso ma anche una delle più "vicine" alla Serenissima, tanto che nel 1574, proprio per soddisfare una richiesta proveniente direttamente dalla Repubblica Veneziana, i Bressa ospitarono nel loro palazzo di Treviso il Re di Francia Enrico III in visita nei territorio della Dominante.
Come spesso accade però, le ambizioni delle persone portano anche a compiere degli errori.
L'appartenenza alla nobiltà trevigiana doveva sembrare troppo restrittiva per persone che invece ambivano a ben altre posizioni così, nel 1652, decisero di comperarsi il titolo di Nobil Homeni, versando nelle casse della Serenissima ben 100.000 ducati (i famosi nobili fatti per soldo).
La scalata sociale nella nobiltà veneziana si completò con il trasferimento della famiglia Bressa nella città lagunare. Ricchi dei soldi accumulati a Treviso, poterono acquistare la bellissima Ca' d'Oro, abbandonando al suo destino il palazzo trevigiano.
Ma le glorie veneziane si esaurirono in pochissimo tempo. Già nel 1674, nemmeno 25 anni dopo il loro ingresso nella Nobiltà Veneziana, i Bressa videro l'intero patrimonio conservato nel palazzo di Treviso battuto all'asta per pagare i debiti fiscali che avevano accumulato e nel 1764, visti i debiti che gravavano sul palazzo voluto da Venceslao Bressa, i suoi discendenti furono costretti a rinunciare alla sua eredità per non finire ancor più sul lastrico.
Palazzo Bressa cadde così in uno stato di profondo abbandono, utile solo per dare un tetto alle truppe dei dominatori che passarono da Treviso e tra il 1824 e il 1826, divenuto cava di materiali, venne completamente demolito, nella più totale indifferenza dei trevigiani.
Lasciamo le ultime parole di questo breve scritto a Fapanni che, citando autorevoli cronachisti, così descrive la rovina di uno dei palazzi più sontuosi di Treviso:
"pp. 285-286
 Palazzo Bressa.
(Da Burchelati, Commenti, p. 355)
Il palazzo Bressa fu demolito nell'anno 1822. L'ultimo proprietario fu il muratore Francesco Sartorelli, che donò l'area al Comune, per tenervi il mercato della legna. Sorgeva a mattina della soppressa chiesa del Gesù, ora Caserma. Il disegno di questo grandioso fabbricato, delineato prima della deplorata distruzione, esiste nelle stanze della Congregazione Municipale. Era dipinto a fresco in stile giorgionesco e Federici ricorda qualche reliquia (Memorie, II, 2)
Fu una vergogna pei Trevigiani lasciar cadere questo Palazzo, e quello dei Pola. Sarebbero stati opportuni per gli uffici municipali, museo, ecc."
... del Palazzo dei Pola, ve ne parleremo in un'altra puntata.

venerdì 10 giugno 2016

Bailo racconta: il Palazzo Rinaldi

Quanti conoscono i manoscritti di Francesco Scipione Fapanni, conservati presso la Biblioteca Civica di Treviso, sanno che non si tratta di semplice cronaca di quanto era custodito in case, palazzi e chiese della provincia trevigiana, ma per quanto riguarda la città di Treviso i suoi scritti possono essere assimilati a una sorta di guida turistica in cui non si viaggia solo nello spazio ma anche nel tempo.
E laddove Fapanni scrisse il titolo nella pagina senza poi completarne la descrizione, ci pensò l'abate Bailo a completare l'opera, anche se con la sua calligrafia insicura determinata da un'età avanzata che a tratti rende difficile la lettura.
Una delle "pagine bianche" completate dall'abate Bailo riguarda quegli edifici che si affacciano su piazza Rinaldi.
Ecco cosa scrive l'erudito trevigiano, fondatore del Museo Civico nonchè direttore della Biblioteca:
"Case Rinaldi e lozzetta della Osteria della Colonna.
In nessun luogo il Fapanni fece ricordo delle case Rinaldi. Eppure la Principale o Domenicale, con una bella facciata lombarde

sca nella piazzetta e belle stanze tra le quali una con quadri di pittura tiepolesca di G.B. Canal rappresentante la caduta di Fetonte.
Il Ramo Rinaldi credo il principale padrone della casa con pozzo aperto al pubblico, terminò col vecchio Tita Rinaldi che conservò il patrimonio con (...) facendo di notte giorno e strane (...) e pagando salate e più con un artificio per cui i figli restarono con poca (..). La casa fu acquistata dal N.ob. G. B. Bianchini che la intestò alla moglie.
L’altro Ramo Rinaldi ebbe il luogo la fabbrica che forma angolo e si protende sul giardino con gli attigui molini. Il fabbricato da lungo tempo pubblico ebbe forma architettonica del Ch. Oliviero Rinaldi.
La loggetta di fronte è di forma molto interessante benchè nessuno (...). Probabilmente il locale serviva per stalla o deposito e la loggetta fu (...) di spettacoli ai quali molto bene si facevano.
La piazza innanzi (piazzetta Rinaldi) di caso facilmente si possono chiudere gli sbocchi. Ricordo infatti che nel 1846 fu così chiusa per spettacoli di cavalli e acrobatismo d’una grande compagnia. Il fabbricato della loggetta doveva essere isolato e così pare che la loggetta corresse tutto intorno aperta; nel centro del fabbricato vi è una grande colonna e così l’Osteria fu chiamata della Colonna e ne portava l’insegna.
Quel fabbricato della loggetta non sembra antichissimo; tuttavia pochi anni sono ho comperato dall’imprenditore Paparotto una vera da pozzo in macigno con stemma a rilievo che sembra del sec. XIII, proprietà d’essa osteria credo fosse dei Papparotto.
Nelle condizioni di censo di casa Rinaldi non trovo mai ricordata questa fabbrica ma forse si poteva considerare una appartenenza della casa maggiore o delle adiacenze; forse appartenente pure ai Rinaldi l’altra grande casa che ha il portico che si apriva, ancora dei Rinaldi ora credo sia del (..) Barbisan. Vi è sopra al pozzo (...) uno stemma coperto di malta che deve essere bellissimo, se si scoprirà."

venerdì 27 maggio 2016

Delle acque di Treviso



Scrive il Fapanni nel 1892 a proposito dei ponti della città di Treviso:
“La città è posta in un terreno ricco di sorgenti d’acque pure, e intersecata da vari fiumicelli. La maggiore e più rapida di codeste acque è il fiume Sile, che bagna una piccola parte della città. Entra dal lato occidentale presso la chiesa di S. Martino, e costeggiando la riviera do S. Margherita e di S. Paolo, esce fuor della città al così detto Portello, ora Porta Garibaldi. Gli altri fiumi sono il Cagnan o Botteniga, la Storga, ch’entrano di sotto le mura di S. Tommaso e si dividono in varii rami che bagnano la città.
Laonde i ponti in città sono almeno diciotto, se non erro. A questi si aggiungano i ponti delle tre porte Altinia, S. Tommaso e Santi Quaranta. Un quarto ponte è quello costruito recentemente fuor delle mura alla Barriera della Stazione delle Strade ferrate. Finalmente si è costruito un quinto ponte ad uso della stessa Via ferrata verso Santo Ambrogio di Fiera.
Ecco i nomi dei ponti che posso qui ricordare, disposti progressivamente secondo la loro importanza, che mi è sembrato di dar loro. Se alcuno ne ho dimenticato, lo si aggiunga.
1.             Ponte a sette archi sul Cagnan o Botteniga
2.             Ponte S. Margherita sul Sile
3.             Si S. Martino sul Sile
4.             Detto dell’Impossibile, ora Dante, dove il Cagnan si unisce al Sile
5.             Di Sant’Agata
6.             Di S. Leonardo. Rinnovato nel 1855
7.             Di S. Francesco ai molini
8.             S. Parisio, Rinnovato 18..
9.             Di S. Ciliano o S. Maria Nova
10.         Sulla Roggia ai Filippini
11.         Alle Cappuccine, dell’Oliva
12.         Presso Santi Quaranta
13.         Dei Mussolini
14.         Degli Avogari
15.         Alla piazza dei Noli
16.         Presso le prigioni demolite di S. Vito
17.         Ponteselli, ai molini di S. Leonardo
18.         Nell’orto di S. Teonisto, ponte ad acquedotto?
19.         Ponte fuor di Porta Altinia
20.         Ponte fuor di Porta S. Tommaso. Rinnovato 18..
21.         Ponte fuor di Porta SS. Quaranta
22.         Ponte fuori della Barriera dinanzi la Stazione della Strada ferrata, moderno.”

Fapanni conta ben 22 ponti, alcuni ancor oggi ben presenti in città ma altri, oltre aver cambiato il nome, si sono perse anche tracce.
Treviso si sa, è una città strana dove i corsi d’acqua ora ci sono e un attimo dopo scompaiono sotto le case, come in un gioco di illusione.
Cinque cono i principali corsi d’acqua che l’attraversano da nord a sud. Artefice di tanta ricchezza è il fiume Botteniga che, entrando in città al ponte de Pria o de Piera, oltre a dividere il suo alveo in tre rami, cambia nome divenendo Roggia, Cagnan di Mezzo e Cagnan Grande. A sua volta la Roggia all’incrocio con il ponte dell’Oliva, nei pressi ove un tempo aveva sede il convento delle Cappuccine, cambia nuovamente nome in Siletto.
A tale patrimonio d’acque per molti secoli corrispose un’abbondanza di attività produttive, le quali sfruttando il moto rotatorio delle ruote dei molini che giravano lungo i canali che si dipanavano in città, ottenevano l’energia necessaria soprattutto per macinare grano, ma anche per lavorare le pelli, ove il toponimo scorzeria ancora persistente nei pressi del ponte Onigo, che ricorda appunto la presenza di concerie in quel luogo, per far funzionare i filatoi di seta, come quello posto sulla Roggia nei pressi del convento delle Cappuccine, o per pilare il riso, produrre carta o per follare la lana.
Una moltitudine di segni: fori utilizzati per l’innesto dei fusi che sostenevano la ruota, ora tracce prodotte dallo sfregamento di quest’ultime sui muri, fino alla conservazione di alcune ruote in corrispondenza dei maggiori complessi molitori. Tutto ciò che ancora oggi è visibile lungo i corsi dei canali a testimonianza di un fermento produttivo che si è mantenuto pressoché inalterato per molti secoli.
La maggior concentrazione di mulini si trovava lungo il Cagnan Grande, e non a caso è proprio lungo questo corso d’acqua che è ancora possibile vedere alcune ruote appartenenti a tre dei maggiori complessi molitori presenti in città. A ponte San Francesco, in un misto di magia e suggestione, girano ancora due ruote del mulino già appartenuto ai nobili veneziani Tron e poi ai conti Rinaldi, dove avveniva la pilatura del riso. Seguendo poi la corrente del Cagnan Grande, nei pressi dell’odierno ponte della Campana, si incontra la ruota in ferro del mulino appartenuto al monastero di San Parisio.
Del terzo nucleo oggi non rimane altro che una ruota, posta oltre la passerella della Pescheria, e alcune tracce sul muro di una casa nella calle denominata Ponticelli, che immette nella piazzetta di Ca’ Spineda. Nel 1666 gli edifici da molino ai ponticelli erano tre: uno a tre ruote di proprietà dei nobili Ravagnin, un altro a due ruote delle Madri di San Marco di Burano e l’ultimo a quattro ruote, e tutti macinavano grano. Nel 1685, però, troviamo che Gio. Batta Bertelli, conduttore di parte di uno dei tre mulini, presentò una supplica agli organi preposti della Repubblica veneziana affinché gli venisse concesso di usare la ruota del suo mulino sia per macinare grano che come pesta tabacco. Ulteriori notizie su questo nucleo molitorio è possibile trarle dai documenti dal fondo dei Provveditori sopra i Beni Inculti conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia (b. 723 – 29 maggio 1795), in cui si dice che Fiorin Rossi, canonico della cattedrale di Treviso, era proprietario di un mulino a due ruote “con casa e caniva di muro coperta a coppi sopra l’acqua della Bottiniga nella parrocchia di San Lunardo”, dato in affitto a Nicoletto Gusin. Fiorin Rossi inoltre notifica al Podestà di Treviso, Iseppo Diedo, che “quando lavora con una ruota, non può lavorare l’altra”, ma che con entrambe macina grano.
L’intero complesso ai Ponticelli venne successivamente venduto ai Dalla Rovere che, come si rileva dai disegni della Commissione d’ornato conservati presso l’archivio di Stato di Treviso (B. 18 n. 4589), nel 1863 risulta ricostruito e adibito a “opificio ad uso Cartiera”.



Bibliografia:
M. Pitteri, I mulini del Sile. Quinto, Santa Cristina al Tiveron e altri centri molitori attraverso la storia di un fiume, Quinto di Treviso 1988;
C. Pavan, Alla scoperta del fiume. Immagini, storia, itinerari, Treviso 1989
R. Vergani, Gli opifici sull’acqua: i mulini, in La Civiltà delle acque, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pp. 53-72
D. Gasparini, M. Merello, M. Potocnik, Ruote e canali nel trevigiano dal medioevo all’età moderna, in Euromills. The Exhibition,Roma 2002, pp. 26-32

giovedì 19 maggio 2016

Asolo, città dai mille orizzonti. Una vista dall'alto

Asolo divenne una città murata unendo con una cerchia di mura i due castelli: la rocca che si trova sul cocuzzolo della collina e il castello pretorio, divenuto successivamente famoso per essere stato la residenza di Caterina Cornaro, regina di Cipro (1454-1510).
Asolo fu un fiorente municipio romano ma a seguito delle invasioni barbariche venne distrutta. Ma come molte altre località trevigiane che condivisero con Asolo il medesimo destino, riuscì a risorgere tanto da divenire sede vescovile, gloria e onore che durò fino al 969 quando Ottone I decretò che la cittadina collinare passasse sotto la giurisdizione ecclesiastica e civile di Treviso.
Asolo venne contesa da più casate fino al 1337, quando preferì scegliere spontaneamente la protezione veneziana. Questa però fu una breve tregua perchè già dieci anni dopo fu il patriarca di Aquileia ad insidiarla e nel 1373 passò sotto il controllo dei Da Carrara. Questi ultimi lasciarono un segno positivo ad Asolo visto che provvidero a fortificarla e ad abbellirla.
Il passaggio definitivo sotto il controllo della Repubblica veneziana avvenne nel 1393 e durò fino alla caduta della Serenissima.
La rocca di Asolo rappresenta il punto più alto del sistema fortificatorio. Essa ha una forma poligonale irregolare, costituita da nove lati di varia dimensione con spessore che alla base è di circa 3,5 metri.
Vi si accede attraverso un portale centinato sul cui intradosso è dipinto lo stemma dei Carraresi.
All'interno sono ancora visibili resti di un'antica torre, della cisterna, di un mosaico e del sistema di camminamento.

















 L'impianto urbanistico di Asolo è sostanzialmente medievale.
Dalla rocca si individuano i principali capisaldi della cittadina: il castello pretorio, la chiesa prepositurale, l'ex convento dei frati minori francescani di San Gottardo o di Sant'Angelo, porta Santa Caterina ecc.

Nel 1489 il castello pretorio, l'antico castrum, divenne dimora della regina di Cipro, Caterina Cornaro, la quale fece costruire un'ala tutta nuova per migliorare la sua residenza. Il castello aveva già subito nei secoli delle trasformazioni, vuoi per adattarlo a nuove esigenze abitative o vuoi per ripararlo dai danni della furia distruttiva degli uomini.
Dall'alto della rocca si riesce anche a individuare la piazza, uno dei pochi "spazi vuoti" del tessuto urbano, con la sua caratteristica fontana a più ugelli simile a quelle che si possono incontrare nei centri montani.









mercoledì 13 aprile 2016

Di una casa di Treviso: Via Calmaggiore n. 27-29




            Molte case trevigiane mantengono ancora inalterato il loro assetto architettonico e in molti casi anche la decorazione parietale.
Percorrendo le strade cittadine si possono infatti incontrare varie tipologie di case, alcune con caratteri gotici, altre con caratteri rinascimentali e altre ancora di aspetto ottocentesco. Tutte comunque raccontano delle storie, di persone che le hanno abitate, vissute e trasformate. Una città medievale che, cambiati i gusti, nel corso dell’Ottocento ha visto rettificare molti dei suoi prospetti.
Questa però è la storia di una casa che ha mantenuto inalterato il suo fascino e le sue forme.
 
Nel 1935 Luigi Coletti, parlando delle case trevigiane disse: “nessuna forse ha l’importanza architettonica del grande palazzo, ma hanno tutte un notevole interesse, sia considerate singolarmente, sia nel loro complesso, per il carattere che conferiscono alla città, e per la continuità di alcuni elementi struttivi e decorativi, che permangono durante secoli, pure attraverso l’adattamento a stili vari”.
Anche le unità edilizie, n. 27-29 di via Calmaggiore a Treviso, appartengono a questa tipologia di case. Esse infatti propongono uno schema costruttivo a schiera, sfruttando l’affaccio commerciale sull’unico fronte stradale e sviluppando la pianta in modo monodirezionale adattandosi al lotto gotico.
Dall’analisi dei prospetti delle due unità edilizie, si può ipotizzare che l’unità 29 sia stata costruita in un periodo di poco antecedente a quella 27. Infatti, essa presenta degli elementi costruttivi, come l’ampio arco a tutto sesto a doppia altezza sopra il quale si aprono tre fornici con assetto assiale sul fronte principale con poggiolo centrale e finestre laterali ad esso molto ravvicinate, che fanno ritenere sia stata costruita nella prima metà del XV secolo. L’unità adiacente invece, il cui affaccio è partito da due archi a tutto sesto e, nell’ordine superiore da tre aperture ravvicinate, presenta nella parte alta della facciata un tondo in pietra raffigurante lo stemma bernardiniano che collocherebbe la costruzione dell’edificio a non prima dell’ultimo quarto del XV secolo. Il ricco apparato decorativo, presente soprattutto nell’unità edilizia 27, confermerebbe inoltre questo tipo di datazione. 
Se l’unità 29, la più antica delle due, presenta nel sottoportico solo una Madonna con Bambino tra i Santi Sebastiano e Giovanni Battista della metà del XV secolo, l’unità 27 invece propone una maggiore varietà di decorazioni su più parti della superficie muraria. Secondo la Spiazzi, tutti sarebbero da ritenersi della seconda metà del XV secolo, ma la presenza dello stemma bernardiniano, proposto anche in una versione ad affresco, porterebbe a spostare leggermente più avanti l’intera decorazione, costituita da motivi a cassettoni con fiori, a vegetali con sirene e una Madonna con Bambino tra San Girolamo e Sant’Antonio.
 Dal punto di vista storico documentario, poco si sa dei due edifici. Al momento della loro costruzione, sicuramente il tessuto urbano in cui si sono inseriti era già consolidato. Nelle immediate vicinanze infatti erano collocati due importanti fabbricati: alle loro spalle si trovava la casa torre degli Oliva del XIII secolo, già destinata a stazione di posta dalla Repubblica Veneziana, dalla quale poi prese il nome l’intera contrada, e di fronte la torre Rossignona o del cambio che nel XIV secolo venne data in uso a banchieri fiorentini . Oltre a questi importanti capisaldi, nelle immediate vicinanze delle unità in oggetto dovevano esistere degli edifici adibiti a casa bottega fin dal periodo medievale visto che il Calmaggiore, antico decumano massimo di epoca romana, era uno dei principali assi viari della città.
Il primo dato certo lo troviamo nel 1678, quando l’unità 27 era abitata da Paulo Pualeri Capelar che pagava 1200 ducati di livello annuo, mentre l’unità 29, di più modeste condizioni, era abitata da Tomaso Meneghini Callegari e pagava 600 ducati di livello.
In un successivo censimento delle botteghe e degli edifici presenti in città nel 1710, data del rilevamento, si legge invece che, per l’unità 29, Tizzian Cavalli ha casa e bottega ad uso di Callegher,[confina] da una la corte dall’altra li nob. Antonio Fratelli Pola e dall’altra strada pubblica. Ad affitto a Iseppo Chialdira Calleghir, mentre per l’unità 27, D. Giacomo Voladin ha casa con bottega ad uso di Cappelir con altra bottighetta annessa ad uso di Marzer con l’insegna di Sant’Osvaldo conf. da una la corte, dall’altra il Tizian Cavalli, davanti strada pubblica. Tenuta per suo uso e la bottighetta affitata a D. Zuane Brissan.
Ulteriori notizie le possiamo dedurre dai registi redatti tra il 1811, anno in cui venne steso il sommarione del catasto napoleonico, e 1819, anno di ultimazione del Registro Tassa Arti e Mestieri. Come è possibile vedere anche negli allegati, l’unità 27, corrispondente al numero di mappa 1492 ,era di proprietà di Gaetano Foscarini che ne occupava anche l’abitazione, mentre la bottega, adibita ad uso modista e chincaglierie, era data in affitto a Gruet Giuseppe. L’unità 29 invece, corrispondente al numero di mappa 1493, era di proprietà di Loredan Antonio fu Domenico e data in affitto a Bussoli Giulio Antonio che, nello spazio adibito a bottega, aveva aperto una caffetteria con biliardo.
Da quest’ultima indicazione è stato possibile identificare in questa porzione di casa, l’antico caffè della Provvidenza, per molti anni gestito da Pietro Fabris. Nel periodo in cui però venne pubblicato il libro “Curiosità storiche trevigiane” il caffè Fabbris era chiuso già da molti anni e trasformato prima birreria e successivamente parte a rivendita di liquori e parte in merceria.