martedì 28 marzo 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 4


 RUBEIS PARMENSIBUS/ PATRITIIS VENETIS/ BERCETI COMITIBUS/ DEPOSITIS//
 Lapide sepolcrale di Guido Maria Rossi, Conte di Berceto. 

La lapide proviene dalla chiesa della Carità di Venezia, oggi sede delle Gallerie dell’Accademia.

La chiesa della Carità faceva parte del più ampio complesso composto anche dal convento dei canonici lateranensi e dalla Scuola Grande di Santa Maria della Carità. La posa della prima pietra dell’originaria fabbrica della Carità risale al 1116, di dimensioni più modeste rispetto alla volumetria oggi visibile, a tre navate di stile bizantino internamente decorata con mosaici. Nel 1134 venne costruito anche il primo monastero aderente alla chiesa per ospitare i monaci dell’ordine lateranense provenienti da Ravenna. Al 1260 spetta invece il primo insediamento della Scuola dei Battuti, che poi assumerà il titolo di Scuola della Carità, istituzione che nel tempo diventerà ricca e importante tanto da essere annoverata tra le Scuola Grandi di Venezia. Con l’elezione al soglio pontificio di Eugenio IV Condulmer nel 1431 inizia anche una nuova fase per i canonici lateranensi della Carità.
Il nuovo papa assegnò loro sostanziose rendite che permisero di avviare imponenti lavori di ricostruzione e ampliamento sia della chiesa che del convento, lavori che erano già quasi conclusi nel 1450 e che fornirono al complesso chiesastico uno spettacolare stile gotico fiorito. Un secolo dopo, i frati affidarono il rimodernamento in senso classico delle fabbriche ad Andrea Palladio, intervento che significò anche l’allargamento con l’acquisizione di nuovi terreni.
Gli interventi architettonici e urbanistici che interessarono l’area della Carità trasformarono completamente il complesso: nei primi anni del XIX secolo vi fu il riadattamento per ospitare l’Accademia delle Belle Arti e le costituende Gallerie dell’Accademia, nel 1854 la costruzione del nuovo ponte sul Canal Grande e in quegli stessi anni l’interramento dei due canali paralleli che fin d’antichità avevano definito in profondità l’insula su cui era nata e cresciuta la Carità.
Ma chi era Guido Maria de' Rossi?

La famiglia Rossi (o de’ Rossi) aveva il suo feudo a San Secondo Parmense, dove ancora oggi esiste la Rocca Rossi costruita nel 1385.
La lapide pur non citando il nome di battesimo (si potrebbe ipotizzare che si tratti di un frammento o di un’iscrizione in origine distribuita su due lastre), si riferisce a Guido Maria Rossi, conte di Berceto. Guido de' Rossi nacque tra il 1435 ed il 1445 da Pier Maria II detto il Magnifico e da Antonia dei conti Torelli.
Scarse sono le notizie intorno alla sua vita sino al 1478 quando fu eletto dal Duca di Milano governatore di Pontremoli e della Lunigiana e nel 1479 nominato condottiere di uomini d'arme. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1482, dovette affrontare gli attacchi di Lodovico il Moro che nutriva mire espansionistiche nelle terre del casato dei de’ Rossi, fino a che il 12 settembre di quell’anno dovette cedere le armi e su istanza del suocero, il milanese Filippo Borromeo (aveva egli sposato la figlia Ambrosina), decise di patteggiare la resa. Le condizioni a cui dovette assoggettarsi furono molto pesanti, tra cui la perdita di molte terre e privilegi feudali fin lì detenuti in vari castelli del parmense. I movimenti ostili dei suoi fratelli, Giacomo in particolare, istigati dai Veneziani a proseguire la guerra, fecero riprendere le armi contro il Moro. Questo costò al De’ Rossi, oltre alla dichiarazione di traditore ribelle, la perdita dei trentatré castelli che gli erano stati lasciati nella pace precedente. Con la pace di Bagnolo del 7 agosto 1484 fu sancito che i Rossi non fossero reintegrati nei loro possedimenti, anzi per disposizione preventiva fu stabilito che il Moro dovesse essere padrone di tutte le loro terre, che poi egli distribuì a suoi favoriti. Guido de’ Rossi, esule volontario, riparò a Venezia, entrando a servizio della Repubblica. Gli fu assegnata una pensione e la condotta di 200 uomini d'armi e 300 arcieri a cavallo. Il Rossi sarà ricordato dai veneziani come uno dei comandanti che partecipò alla cruenta battaglia di Calliano del 1487, nel corso della guerra di Rovereto fra i Veneziani e Sigismondo Conte del Tirolo. Le conseguenze politiche dell’impresa guidata da Guido de' Rossi, oltre che impedire ai Tirolesi una netta vittoria su Venezia, consentirono alla Serenissima Repubblica di mantenere i propri confini e di garantire il possesso su Rovereto per altri vent'anni.
Guido de’Rossi e Ambrogina Borromeo diedero i natali a Bernardo, vescovo di Treviso e Belluno, ritratto nel 1505 da Lorenzo Lotto.
Guido de' Rossi morì in Venezia nel 1490. Scrisse l'Angeli che "se ne morì in Vinegia con molto dolore di tutta la città. La pompa funerale fu solennemente fatta per ordine della Repubblica, e con molto honorata oratione fu lodato da Marco Antonio Sabellico, e seppellito nella chiesa della Carità". 



Fonti bibliografiche e archivistiche:
Angeli Bonaventura, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 347
Bembo M.P., Della Istoria Viniziana, tomo I, Venezia 1790, p. 1487
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 87 n. 94
Franzoi U.-Di Stefano D., Le chiese di Venezia, Venezia 1976, pp. 216-223



lunedì 13 marzo 2017

Le "navi de vero" di Ermosia. Una Vivarini mastra vetraia.




     Seduta al suo banco, Ermosia lavorava la materia vitrea come fosse creta, creando incantevoli navi e galeoni di vetro.
La sua arte era tale da non lasciare indifferente un fine cronista come Marino Sanudo, suo contemporaneo, che nel 1521 la citò nel volume XXX dei suoi famosi Diarii.
Il destino di Ermosia o Armenia, ma anche Armonia o Hermania per alcuni, era simile a quello di tante altre donne del suo tempo: la vita domestica all’ombra di un marito e dei figli oppure un’esistenza chiusa tra le mura di un monastero.
    Ma Ermosia fu più fortunata di altre donne perché poté frequentare la fornace da vetro della sua famiglia, già presente a Murano nel XIV secolo dopo aver trasferito l’attività di vetrai da Padova.
Il bisnonno Michele era ben noto a Venezia sia per la sua arte che per aver dato i natali a due tra i più grandi pittori della tradizione veneziana: Antonio e Bartolomeo Vivarini. Anche il figlio di Antonio, Alvise, intraprese la professione del padre. Ma Ermosia, figlia di Alvise, volle portare avanti la tradizione originaria della sua famiglia, quella di creare oggetti in vetro.
    Per capire l’intreccio famigliare, tra artisti del vetro e del pennello, è interessante vedere l’albero genealogico della famiglia Vivarini redatto da Ludwig e Paoletti nel 1899 e riproposto da Sinigaglia nel 1905 nella monografia scritta proprio sulla famiglia degli artisti muranesi.
Anche se in questo albero genealogico si può notare che manca un legame assai importante per la famiglia Vivarini: il matrimonio tra la sorella di Antonio e Bartolomeo con il pittore di origine tedesca Giovanni d’Alemagna. In questa fonte emerge però un dato in più rispetto a quanto riportato da Marino Sanudo e che riguarda lo stato civile di Ermosia.
Ella, infatti, risulta essere stata “maritata” a Domenico de Calvis, e nonostante i sicuri impegni famigliari riuscì a ricavarsi uno spazio professionale tutto suo, tanto da ottenere un privilegio decennale per produrre proprio quelle “navi de vero” per le quali divenne famosa.
    Non era scontato che la storia restituisse un tale talento visto che alle donne non era concesso iscriversi alle corporazioni di arti e mestieri e anche quando ciò accadeva, la loro arte era legata alla frequentazione delle botteghe di famiglia, come nei casi di Ermosia o di Marietta Robusti (più nota come Tintoretta), e comunque la loro produzione doveva rimanere il più possibile anonima.
Ma le “navi de vero” di Ermosia non potevano passare inosservate, vista la cura che l’artista ci metteva per renderle il più possibile simili alla realtà. E infatti, il cronachista bolognese Leandro Alberti nel 1550, nel descrivere cosa vide a Murano, così scrisse a pagina 423 del suo libro  Descrittione di tutta Italia: «Io ho veduto quivi (fra l’altre cose fatte di vetro) una misurata galea, longa un baccio con tutti suoi fornimenti, tanto misuratamente fatti che par cosa impossibile (come dirò) che di tal materia tanto proporzionatamente si siano potuti formare».
     Non tutti però sono d’accordo nell’attribuire alla Vivarini la realizzazione di tanto prodigiose opere adducendo a sostegno di tale affermazione che Sanudo mancò di citarla nel 1525 quando descrisse la festa della Sensa. Egli infatti scrisse: «Bellissimo tempo; ma pochi forestieri né tele cremasche. Fo in piaza do belle botege, una di cose de alabastro lavorate a Fiorenza di pietra tenera bianca sì cava sotto Piombin, molto belle, e dimandano assai dil pezo, l’altre 3 botege di veri, videlicet Anzoleto, quel de la Serena, et Francesco Balarin con lavori bellissimi, inter coetera vidi una galia e una nave granda bellissima, senza altri vazi e cose di vero meravigliose».
Scrive infatti Barovier Mentasti nel 1982: «le navi di Armenia dovevano essere di un genere particolare, forse fabbricate a lume o con qualche altra tecnica non strettamente vetraria, dato che la figlia di Vivarini non venne annoverata nelle carte antiche tra i gestori di fornace e che, malgrado il suo privilegio, alla fiera dell’Ascensione di pochi anni dopo, il Sanudo poté ammirare galee vitree fabbricate da altri».
   Il fatto che il nome di Ermosia non compaia nei documenti antichi come gestrice di fornace non deve sorprendere perché, nonostante potesse vantare il privilegio per la realizzazione delle “navi de vero”, rimane valido quanto scritto sopra: alle donne non era concessa quella libertà di azione professionale che era a completo appannaggio degli uomini.
Rileggendo inoltre quanto scrive Sanudo a pagina 346 del volume XXXVIII dei Diarii e confrontando le voci riportate in indice dallo stesso autore, possiamo rilevare che “Anzoleto” è alias Angioletto Barovier  fabbricatore di vetro, Francesco Ballarin era un venditore di vetri mentre la denominazione “Serena” riportata nel passo di cronaca poi non viene nemmeno riportata in indice, pertanto nulla si sa di chi fosse o cosa proponesse nella sua bottega presente alla festa della Sensa.
Rimane quindi il dubbio se a quella festa Ermosia non abbia partecipato fisicamente, affidando le sue opere al Ballarin – chissà, forse era impegnata in faccende domestiche -, oppure se dietro al misterioso nome di Serena, non ci fosse in realtà proprio lei.
    Qui finisce per il momento la storia di Ermosia Vivarini, in attesa che nuovi studi vengano fatti e nuove scoperte possano ridare identità a un’artista che il tempo ha dimenticato.

Silvia e Roberta Rizzato

Bibliografia:  
Marino Sanudo, Diarii (MCCCCXCVI-MDXXXIII), Venezia 1879-1903
Leandro Alberti, Descrizione di tutta Italia, 1550
Giorgio Sinigaglia, De' Vivarini, pittori da Murano, Bergamo 1905
Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982
Luke Syson, Dora Thornton, Objects of Virtue: Art in Renaissance Italy, Los Angeles 2001