lunedì 4 settembre 2017

OPERA LIRICA E CARTELLONISMO: ADOLF HOHENSTEIN E L'"IRIS" DI PIETRO MASCAGNI


La predilezione di Adolf Hohenstein per i lampi di rosso che sembrano "avvampare" molte delle sue realizzazioni grafiche, si trasformano, in uno dei suoi manifesti più conosciuti, in afflato drammatico e simbolico. Si tratta del manifesto che l'artista realizzò per il debutto dell'opera lirica - musicata da Pietro Mascagni su libretto di Luigi Illica – Iris. L'opera debuttò il 22 novembre 1898 al Teatro Costanzi di Roma, con protagonista una della cantanti più famose dell'epoca, la soprano di origine rumene Hariclea Darclée, conosciuta per essere stata la prima interprete di Tosca di Giacomo Puccini.
Il manifesto raffigura una fanciulla seminuda che, fluttando nell'aria, si staglia su di uno sfondo dorato, affiancata da una spira di fumo dentro cui si disperdono tre teste maschili, evidentemente giapponesi; ai suoi piedi è tutto un fiorire di magnifici iris viola. L'efficacia, oltre che l'eleganza, di questo manifesto non potrebbe essere maggiore: pochi elementi che racchiudono l'essenza stessa dell'opera, la prima in Italia, poi seguita dalla più famosa Madama Butterfly di Puccini, che si richiama apertamente a quella moda nipponica che già da qualche anno aveva investito le arti figurative e la letteratura. La trama dell'opera, da molti giudicata farraginosa e in certi tratti intelleggibile – motivo forse della sua scarsa fortuna nella seconda metà del Novecento, diversamente dalla osannata Madama Butterfly -, narra la classica vicenda della bella e ingenua ragazza circuita e poi rapita dai "vecchioni" e che, al rifiuto di concedersi, viene prima rinchiusa in una casa di malaffare e poi indotta al suicidio. E qui il melodramma raggiunge i suoi vertici poetici, sottolineati musicalmente dall'Inno del Sole che è sia ouverture dell'opera che catartica chiusura, laddove la ragazza si getta in un dirupo e il sole splendente in cielo la trasmuta in uno dei fiori emblema stesso dell'Art Nouveau, l'iris, simbolo di vittoria per i popoli orientali. Una sorta di assunzione in cielo in chiave liberty e simbolista.
La produzione di quest'opera lirica nasce da una precisa volontà del vulcanico editore milanese Giulio Ricordi, nell'intento di far giungere anche in Italia la moda per l'esotismo orientale, già ampiamente percorso da vari musicisti europei. L'operazione venne concepita, come si suol dire, "alla grande", creando tutti i presupposti affinchè il debutto venisse percepito come un grande e coinvolgente momento culturale, carico di aspettative. Egli mise in moto, a tal fine, tutta la sua "scuderia" grafica, a cominciare proprio dal direttore artistico, Adolf Hohenstein, che fu anche importante scenografo e costumista, e non soltanto per quest'opera di Mascagni. Hohenstein ideò sia il manifesto per il debutto romano, ma anche, assieme a Giovanni Mataloni, una serie di cartoline-ricordo che raffiguravano varie scene dell'opera; furono, inoltre, ideati e stampati calendarietti, locandine, chiudi lettera, copertine di spartiti musicali, tabelle in latta, il libretto-programma di sala e anche un libretto da vendere in edicola nei giorni precedenti il debutto. Si potrebbe ben affermare che per questa importante occasione musicale, si sia applicato il concetto propriamente liberty, dell' oevre globale: ogni elemento correlato all'evento venne scrupolosamente studiato e proposto al pubblico – prassi questa già consolidata, ad esempio con il sodalizio tra la divina Sarah Bernhardt e Alfons Mucha, che ad iniziare dal 1894 era divenuto l'incontrastato ideatore di manifesti, scenografie e costumi per ogni spettacolo della grande attrice.

Una perfetta operazione di marketing ante-litteram, quella per il debutto di Iris, che aveva lo scopo di garantire successo e positivi riscontri. L'anno successivo Iris raggiunse il tempio della lirica: il Teatro La Scala di Milano dove, sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini, Mascagni bissò il successo romano. In quell'occasione la realizzazione del nuovo manifesto fu affidata a Leopoldo Metlicovitz, che si assestò in una
proposta artistica molto più convenzionale senza raggiungere l'efficacia sentimentale e di armonia degli elementi rappresentati da Hohenstein, al quale certamente il pieno coinvolgimento nell'operazione fornì e stimolò chiavi rappresentative di maggiore levatura artistica.

Roberta Rizzato

lunedì 21 agosto 2017

Fisso l’idea. Un messaggio pubblicitario che usa la psicologia come arma di persuasione.



 Dudovich è giovanissimo quando realizza questo manifesto, poco più di vent'anni; eppure riesce a fare una sintesi perfetta della lezione artistica appresa a Milano presso le Officine Grafiche Giulio Ricordi, intuendo che la pubblicità è fatta anche di messaggi subliminali, di sottotesti che possono andare oltre alle parole o alle immagini esplicitate.
Per questo cartello Dudovich sceglie un formato di piccole dimensioni, verticale e una composizione leggermente disassata a destra. In esso c’è tutta l’influenza dei grandi maestri che lo formarono a Milano: se da Metlicovitz deriva la scelta di adottare una figura classica, decisamente michelangiolesca, per lanciare il messaggio pubblicitario scritto da una mano intrisa nell’inchiostro, da Hohenstein prende senza ombra di dubbio quegli elementi Liberty che, trattati quasi fossero un negativo scegliendo di lasciarli bianchi come la carta, escono quasi dal manifesto stagliandosi sulla più decisa tinta nera del moderno inchiostro e dello sfondo seppia, che ricorda invece il più antico liquido usato per scrivere, divenuto però ormai obsoleto e poco al passo con i tempi.
Un manifesto che non poteva lasciare indifferenti. Fortissimo è l’impatto di quella figura di spalle, inginocchiata su una sola gamba che sembra uscire dall’inchiostro per portare il suo importante messaggio: l’inchiostro fissa, nero su bianco ciò che si potrebbe volatilizzare o deformare con il passare del tempo. Un messaggio antico, se vogliamo, che non si discosta molto dal proverbio latino verba volant, scripta manent. Ma ancor più forte è proprio il messaggio lasciato sul muro dal giovane uomo: fissa l’idea, che va oltre alla funzione dell’inchiostro, ma che entra più nello specifico del moderno pensiero. E questo può essere confermato osservando le due macchie di colore giallo - prive di contorno come Dudovich aveva appreso dalla lezione di Laskoff – che fanno pensare ai fumi che possono uscire dalla mente che sta ragionando.
Un cartello che quindi va oltre al messaggio pubblicitario, ma che potrebbe sintetizzare anche le contemporanee teorie psicoanalitiche: fissare l’idea significa non poterla più modificare e rendere concreto e reale ciò che si ha in mente. Sia che si tratti di un’idea progettuale che un pensiero che arrivi dall’inconscio. E questo lo si può fare solo se si usa l’inchiostro!

Silvia Rizzato

lunedì 7 agosto 2017

Dudovich e la pubblicità che arriva d’estate




Una bella sorpresa attendeva i napoletani la sera del 15 giugno 1894.

La réclame, gli affissi e i cataloghi non erano più sufficienti per richiamare la clientela negli ampi spazi dei Magazzini Italiani dei fratelli Mele. Così Emmidio Mele, in collaborazione con l’amministrazione comunale, si inventò qualcosa di speciale per animare le calde serate estive partenopee: le “Feste estive”, una sorta di “notti bianche” ante litteram in cui si prevedeva, tra le altre cose, un’apertura straordinaria dei negozi oltre il consueto orario (Barbagallo 2015, p. 110).

Dal 15 giugno al 15 settembre, via Toledo – dove sorgevano i Magazzini Italiani Mele – e le vie limitrofe si animavano di gente che, tra uno struscio serale e l’altro, attirati dallo sfavillio delle luci, non mancavano di fare un giro anche all’interno del grande magazzino più di moda e popolare di Napoli. Un’illuminazione notturna che fu una novità assoluta non solo per Napoli ma probabilmente per l’Italia intera, proposta da chi, viaggiando molto per l’Europa sempre alla ricerca di novità da proporre nel proprio negozio, riusciva a far proprie le idee più all’avanguardia del marketing: Emiddio e Alfonso, per esempio, compresero prima degli altri patron di grandi magazzini che investire sull’affisso pubblicitario avrebbe portato un grande ritorno in termini di clientela e quindi di affari.

Durante la vita dei Magazzini Italiani - circa un quarantennio protrattosi dal 5 ottobre del 1889 al settembre 1932 -, la famiglia Mele produsse circa 180 tra manifesti e locandine (Picone Petrusa 1988, p. 74 n. 2), i quali non solo servirono a pubblicizzare i prodotti venduti negli ampi spazi commerciali ma, con il tempo, divennero anche una sorta di chiara testimonianza di come in pochi anni si modificò il gusto estetico degli italiani.

Un chiaro esempio del mutamento della moda in voga in Italia negli anni che precedettero la Grande Guerra, lo troviamo nel manifesto realizzato da Dudovich nel 1912. Si tratta di un affisso realizzato per piani sovrapposti, con un punto di “ripresa” che va dal basso verso l’alto.

In primo piano si staglia una bella ragazza con cappello ad ampia tesa che nasconde uno sguardo accattivante, le mani giunte dietro la schiena che trattengono i guanti da sera e il lungo vestito, in tre colori con breve spacco laterale, che fa intravvedere, spudoratamente, i piedi calzati in appuntite scarpe nere con la fibbia e la gamba ben oltre la caviglia. Non occorre sottolineare che tale mise era composta da tutti articoli reperibili presso i magazzini Mele.

Ma è l’abito, però, che suscita maggiore attenzione: con grande maestria Dudovich riuscì, con fitte linee verticali sulle tona
lità del rosa e dell’azzurro quasi a creare un effetto cangiante, a dare il senso della plissettatura, quella stessa inventata da Mariano Fortuny nel 1907 per realizzare il suo più famoso
ed esclusivo modello Delphos. Un abito, quello di Fortuny, che scendeva morbido sul corpo delle signore, adattandosi alle loro curve grazie all’effetto “fisarmonica” della stoffa. Vero è che il Delphos copriva ben oltre la caviglia, appoggiandosi come una campanula al pavimento ma, volendo, grazie a una trovata dello stilista che aveva apposto delle cordicelle nascoste su maniche e corpo, si poteva adattare alle esigenze del momento: in estate poteva essere un abito smanicato e nelle mezze stagioni con maniche a tre quarti e la lunghezza del corpo poteva variare a seconda se si preferiva portarlo come una lunga tunica o rimborsato legando in vita una fusciacca. Non c’è, però, dubbio che il modello realizzato per i magazzini Mele, e ritratto da Dudovich, sia un parente alquanto stretto con il più famoso Delphos.

In secondo piano troviamo poi due figure vestite in foggie d’altri tempi che quasi si confondono con l’oscurità della notte. L’uomo guarda con sguardo malizioso la giovin donzella, ammirandone sia la caviglia scoperta che l’abito aderente, nonostante quel modello estetico sia ben lontano da ciò che la sua non giovane età è abituata, ossia quella forma a S del corpo definita da bustini e cul-de paris che tanto andava in voga tra fine Ottocento e inizio Novecento. La donna invece, forse trattenendo per un braccio il suo accompagnatore, serrando la bocca nasconde sotto l’ampio cappello uno sguardo di disappunto per tanta dissolutezza.

E arriviamo infine al terzo piano, quello con il nome del brand definito dalle lampadine colorate, che illuminavano le notti delle Feste estive, parzialmente nascosto dai cappelli dei tre personaggi dando un effetto tridimensionale all’intera scena.

È interessante notare che in questo manifesto il nome Mele è seguito solo da “& C.” senza più riportare gli acronimi dei due fondatori dei Magazzini Italiani, Emeddio e Alfonso. Questo si spiega con la scelta dei due fratelli, forse stanchi di una vita fatta di viaggi e magari desiderosi di trascorre più tempo con le loro famiglie, di cedere l’attività al nipote Davide, cresciuto dai due fratelli come fosse un figlio loro tanto da pagargli tutte le spese per la sua formazione, finanche la frequentazione dell’università a Berlino.

Questi, subito dopo, con atto notarile rogato il primo maggio 1910 dal notaio Bordino di Milano, costituì la società in accomandita semplice “Mele e C.” gestita completamente da lui e da tale Pietro Picchetti (Barbagallo 2015, p. 90).

Quest’ultima informazione diventa quindi di notevole importanza per poter datare con maggior precisione alcuni affissi prodotti dalla famiglia Mele.

 

Silvia Rizzato


Bibliografia:

Barbagallo Francesco, Napoli, Belle Époque, Roma-Bari 2015

Picone Petrusa Mariantonietta, I manifesti Mele e la produzione cartellonistica napoletana fra Ottocento e Novecento, in I manifesti Mele. Immagini aristocratiche della “belle époque” per un pubblico di Grandi Magazzini, Milano 1988, pp. 31-81



martedì 1 agosto 2017

Franz Laskoff e i Magazzini Mele


Franz Laskoff, 1902

      
I Magazzini Mele non furono solo un “Paradiso delle signore” al pari dei grandi magazzini parigini che ispirarono il romanzo di Emile Zola, ma anche una vera fucina di réclame disegnate dai migliori cartellonisti italiani del momento.
Fondati nel 1889 dai fratelli Emiddio e Alfonso Mele, facoltosi proprietari terrieri, gli omonimi magazzini (il cui slogan recitava: Massimo buon mercato) prendono vita proprio sulla scia di quanto i due fratelli napoletani avevano ammirato a Parigi: gli empori La Fayette e il Bon Marché.
Franz Laskoff, 1901
Il loro piglio imprenditoriale e l’intuizione che quel tipo di commercio - basato anche sulla vendita su catalogo - sarebbe stato il futuro, li convinse ad aprire proprio nella loro città un negozio dove si poteva trovare di tutto, dai vestiti allo champagne, dagli elementi di arredo della casa finanche all’amido per la biancheria. Una sorta di raffinato gran bazar che appagava le richieste di una clientela di nuova formazione, la borghesia agiata, a cui piaceva spendere non solo per beni di prima necessità ma anche per delle frivolezze che solo in un grande magazzino si potevano trovare.
E l’ulteriore grande intuizione dei fratelli Mele fu proprio quella di scommettere sulla pubblicità, per cui investirono ingenti somme di denaro facendo eseguire da tipografi locali dei cartelloni da fissare sui muri della città seguendo il loro particolare gusto artistico e la loro idea di come proporre i prodotti che commerciavano. Ma trascorso il primo decennio di attività, e appurato che avevano scommesso bene con i Magazzini Mele, i due fratelli napoletani decisero di fare un salto di qualità rivolgendosi alla più grande casa pubblicitaria d’Italia: l’Officina Grafica Ricordi di Milano. Per la Ricordi in quegli anni lavoravano i più bravi e importanti cartellonisti sia italiani che stranieri, tra cui Franz Laskoff che si distingueva per uno stile anglosassone con figure piatte dai contorni sottilissimi.
Beggerstaff, 1895
Franz Laskoff, nome d’arte di François Laskowski, nacque a Bromberg, Polonia, nel 1869, ma già nel 1874 si trasfirì con la famiglia a Strasburgo, dove compì i suoi studi prima di approdare a Parigi. Ventunenne arrivò a Milano dove trovò impiego presso le Officine Grafiche Ricordi, sotto la direzione artistica di Adolfo Hohenstein.
Nonostante il suo stile si discostasse non poco da quello dei suoi colleghi, vedi fra tutti Dudovich o Terzi che per i Magazzini Mele produssero altrettanti celeberrimi cartelloni, Hohenstein concesse a Laskoff piena libertà di espressione, assecondando la sua vena artistica che si avvicinava ai modi degli inglesi Beggerstaffs Brothers.
Fu così che i suoi cartelloni si poterono distinguere per l’uso della tinta piatta, senza contorni o al più appena accennati, eliminando completamente le mezzetinte, come fossero stati composti utilizzando la tecnica del collage tipica della produzione dello studio Beggerstaffs.
Beggerstaff, 1894
Questa tecnica compositiva però non riuscì a conquistare a pieno il gusto della committenza e nel 1906 Laskoff decise di lasciare l’Italia per approdare in Gran Bretagna, nazione che aveva dato i natali proprio ai cognati William Nicholson e James Pryde, fondatori dello studio Beggerstaff. È da sottolineare però che nemmeno i Beggerstaff Brothers ebbero grande fortuna in patria: la loro attività durò solo un lustro (dal 1894 al 1899) perché il loro stile era considerato troppo avveniristico e audace.
L’attività anglosassone di Laskoff seppe inserirsi proprio in quella via di mezzo tra l’audacia dei Beggerstaffs e i più “tradizionali” cartellonisti d’oltremanica, dandogli così la possibilità di continuare la sua attività di cartellonista fino allo scoppio del Grande Guerra. Laskoff venne poi dato per disperso in battaglia nel 1918.
Per chiudere, i Magazzini Mele continuarono a prosperare fino alla morte di Emmidio nel 1928, dopodiché l’impresa passò al nipote Davide che non riuscì a far fronte alla grande crisi del 1929 tanto più che il suo impegno in Senato (incarico ottenuto già nel 1928) lo costringeva a trascorrere molto tempo a Roma. I Magazzini Mele chiusero quindi definitivamente le serrande nel 1932.

Silvia Rizzato

venerdì 7 luglio 2017

L’omaggio che probabilmente Mataloni volle fare ad Auer




Che Mataloni conoscesse le scoperte fatte dal barone Carl Auer von Welsbach, è fuor di dubbio, visto che tra i manifesti realizzati proprio dal maestro romano troviamo quello relativo al Brevetto Auer.
Carl Auer rivoluzionò il modo di illuminare le città, pur utilizzando la stessa fonte energetica, il gas illuminante, che per decenni diede luce alle principali città europee.
Tra il 1879 e il 1884 aveva già iniziato a diffondersi quella fonte illuminante che ancora oggi utilizziamo: la luce elettrica a filamento incandescente.
Sembrava che il vecchio sistema di distribuzione del gas, che portava luce in ogni lampione, dovesse essere abbandonato per lasciar posto alla nuova invenzione, che garantiva una maggior irradiazione di luce.
Il primo brevetto presentato da Auer nel 1885, non ebbe grande successo perché la reticella incandescente, che tanta fortuna gli portò in seguito, si rivelò fragile e la luce che emetteva era verdastra al posto che bianca.
Ma la sua intuizione di creare un involucro incandescente che moltiplicasse l’effetto della luce non tardò a dare i suoi frutti con il brevetto che Auer presentò nel 1891: la reticella, o mantello che dir si voglia - fatto in Torio e Cerio nella combinazione proporzionale di 99 a 1 – la quale produceva una luce bianca assai soddisfacente. Inutile dire che questa invenzione ebbe subito un enorme successo visto che le città per la prima volta poterono essere illuminate quasi fosse ancora giorno.
Ma prima di arrivare alla scoperta della reticella incandescente, bisogna fare un passo indietro, quando nel 1880 Auer lascia Vienna per studiare ad Heidelberg con Robert Bunsen il quale assegnò al giovane viennese il compito di analizzare dei campioni minerali di terre rare.
Tornato a Vienna, Auer continuò i suoi studi sui minerali di terre rare e nel 1885 riuscì a dividere il presunto elemento chiamato Didimio in due elementi autentici: il Praseodimio (numero atomico 59) e il Neodimio (numero atomico 60).
Per Auer fu una scoperta importante perché le polveri di praseodimio potevano conferire una tonalità verde alle ceramiche mentre quelle di neodimio davano un colore rosa ai vetri per gli occhiali protettivi.
Torniamo quindi a Mataloni e ai cartelloni da lui realizzerati per la Società Anonima per la Incandescenza a Gas Brevetto Auer, uno datato 1895 e l’altro post 1895.
Il primo, quello datato e firmato per esteso, presenta, oltre al beccuccio con reticella incandescente, un fondo a piastrelle di ceramica verde, mentre il secondo ha un fondo che assomiglia a una vetrata a rulli (quelli che ancora si vedono in molte finestre di palazzi veneziani) ma che in realtà potrebbe trattarsi di una combinazione di lenti circolari colorate proprio con il neodimio.
Probabilmente non sapremo mai se Mataloni con questi due cartelli abbia voluto rendere omaggio al grande scienziato viennese Carlo Auer che rivoluzionò il modo di illuminare le città.
Certo è che la coincidenza nell’uso di elementi decorativi come di piastrelle in ceramica verde o di vetri circolari rosa, lasciano aperte tutte le ipotesi, anche quella che il maestro Mataloni conoscesse l’attività scientifica di barone von Welsbach più di quanto noi oggi possiamo nemmeno ipotizzare.

Silvia e Roberta Rizzato

lunedì 10 aprile 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 5



LUCAE CIVRANO SENATORI OPT/ ET AMPLISSI. HONORIB FUNCTO/ PETRUS GORIUS EX SORORE NEPOS/ PONENDUM CURAVIT/ DECESSIT ANN LXXV MDIII//



Si tratta della lapide sepolcrale del senatore Luca Civran, morto all’età di 75 anni nel 1503.
Pietro Guoro, nipote da parte di madre, volle onorare la memoria dello zio facendo costruire un monumento sepolcrale da collocare in apposita cappella all’interno della chiesa dei Carmini.
La famiglia Civran possedeva un grande palazzo in campo dei Carmini che venne demolito nel 1845. Di esso oggi sopravvive solo un dipinto ottocentesco conservato presso il Museo Correr e la statua di un guerriero che regge lo scudo con arme Civran posta nell’angolo verso il rio del ricostruito palazzo ai Carmini.
Il palazzo di Luca Civran, dopo la sua morte, passò in eredità al nipote Pietro Guoro che, secondo il Cicogna, già a partire dal 1502 aveva iniziato a restaurarlo portando a termine i lavori nel 1507.
Grato dell’eredità ricevuta dallo zio, Pietro Guoro diede incarico a Sebastiano Mariani (Lugano, 1483 – Venezia, 1518) di realizzare il monumento funebre dello zio proprio nella chiesa vicina al suo palazzo. Non si hanno notizie precise su come doveva apparire questo monumento ma di certo, oltre alla lapide con l’iscrizione sopra riportata, aveva due angioletti reggi scudo, uno con stemma di casa Civran e l’altro con
l’effige della famiglia Guoro, oggi conservati presso lo Staatliche Museen di Berlino.
E fu ancora Sebastiano di Giacomo da Lugano a realizzare le volontà testamentarie di Pietro Guoro, morto nel 1514, costruendo un nuovo monumento sepolcrale nella stessa chiesa dove era già stato sepolto lo zio. Pietro dispone che la considerevole cifra di 106 ducati d’oro, liquidata il 18 dicembre 1515 a “magister Sebastianus de Lugano lapicida q. Ser Jacobi” abitante in “confino Sancti Angeli”, fosse versata per ogni singolo lavoro fatto “jn capella prefati c.d. petri gauro in ecclesia Sancte marie carmelitarum de Venetijs”.
A seguito delle soppressioni napoleoniche, la chiesa dei Carmini venne trasformata da conventuale a parrocchiale con la conseguente necessità di trovare un posto dove collocare il fonte battesimale. Fu così che nel 1815 si decise di sacrificare proprio la cappella ove era collocato il monumento funebre di Luca Civran.

Fonti bibliografiche e archivistiche:
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 87 n. 93
Franzoi U.-Di Stefano D., Le chiese di Venezia, Venezia 1976, p. 178
Zorzi A., Venezia scomparsa, Milano 2001, p. 297
Tassini G., Curiosità veneziane – ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, Venezia 1887, p. 157

martedì 28 marzo 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 4


 RUBEIS PARMENSIBUS/ PATRITIIS VENETIS/ BERCETI COMITIBUS/ DEPOSITIS//
 Lapide sepolcrale di Guido Maria Rossi, Conte di Berceto. 

La lapide proviene dalla chiesa della Carità di Venezia, oggi sede delle Gallerie dell’Accademia.

La chiesa della Carità faceva parte del più ampio complesso composto anche dal convento dei canonici lateranensi e dalla Scuola Grande di Santa Maria della Carità. La posa della prima pietra dell’originaria fabbrica della Carità risale al 1116, di dimensioni più modeste rispetto alla volumetria oggi visibile, a tre navate di stile bizantino internamente decorata con mosaici. Nel 1134 venne costruito anche il primo monastero aderente alla chiesa per ospitare i monaci dell’ordine lateranense provenienti da Ravenna. Al 1260 spetta invece il primo insediamento della Scuola dei Battuti, che poi assumerà il titolo di Scuola della Carità, istituzione che nel tempo diventerà ricca e importante tanto da essere annoverata tra le Scuola Grandi di Venezia. Con l’elezione al soglio pontificio di Eugenio IV Condulmer nel 1431 inizia anche una nuova fase per i canonici lateranensi della Carità.
Il nuovo papa assegnò loro sostanziose rendite che permisero di avviare imponenti lavori di ricostruzione e ampliamento sia della chiesa che del convento, lavori che erano già quasi conclusi nel 1450 e che fornirono al complesso chiesastico uno spettacolare stile gotico fiorito. Un secolo dopo, i frati affidarono il rimodernamento in senso classico delle fabbriche ad Andrea Palladio, intervento che significò anche l’allargamento con l’acquisizione di nuovi terreni.
Gli interventi architettonici e urbanistici che interessarono l’area della Carità trasformarono completamente il complesso: nei primi anni del XIX secolo vi fu il riadattamento per ospitare l’Accademia delle Belle Arti e le costituende Gallerie dell’Accademia, nel 1854 la costruzione del nuovo ponte sul Canal Grande e in quegli stessi anni l’interramento dei due canali paralleli che fin d’antichità avevano definito in profondità l’insula su cui era nata e cresciuta la Carità.
Ma chi era Guido Maria de' Rossi?

La famiglia Rossi (o de’ Rossi) aveva il suo feudo a San Secondo Parmense, dove ancora oggi esiste la Rocca Rossi costruita nel 1385.
La lapide pur non citando il nome di battesimo (si potrebbe ipotizzare che si tratti di un frammento o di un’iscrizione in origine distribuita su due lastre), si riferisce a Guido Maria Rossi, conte di Berceto. Guido de' Rossi nacque tra il 1435 ed il 1445 da Pier Maria II detto il Magnifico e da Antonia dei conti Torelli.
Scarse sono le notizie intorno alla sua vita sino al 1478 quando fu eletto dal Duca di Milano governatore di Pontremoli e della Lunigiana e nel 1479 nominato condottiere di uomini d'arme. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1482, dovette affrontare gli attacchi di Lodovico il Moro che nutriva mire espansionistiche nelle terre del casato dei de’ Rossi, fino a che il 12 settembre di quell’anno dovette cedere le armi e su istanza del suocero, il milanese Filippo Borromeo (aveva egli sposato la figlia Ambrosina), decise di patteggiare la resa. Le condizioni a cui dovette assoggettarsi furono molto pesanti, tra cui la perdita di molte terre e privilegi feudali fin lì detenuti in vari castelli del parmense. I movimenti ostili dei suoi fratelli, Giacomo in particolare, istigati dai Veneziani a proseguire la guerra, fecero riprendere le armi contro il Moro. Questo costò al De’ Rossi, oltre alla dichiarazione di traditore ribelle, la perdita dei trentatré castelli che gli erano stati lasciati nella pace precedente. Con la pace di Bagnolo del 7 agosto 1484 fu sancito che i Rossi non fossero reintegrati nei loro possedimenti, anzi per disposizione preventiva fu stabilito che il Moro dovesse essere padrone di tutte le loro terre, che poi egli distribuì a suoi favoriti. Guido de’ Rossi, esule volontario, riparò a Venezia, entrando a servizio della Repubblica. Gli fu assegnata una pensione e la condotta di 200 uomini d'armi e 300 arcieri a cavallo. Il Rossi sarà ricordato dai veneziani come uno dei comandanti che partecipò alla cruenta battaglia di Calliano del 1487, nel corso della guerra di Rovereto fra i Veneziani e Sigismondo Conte del Tirolo. Le conseguenze politiche dell’impresa guidata da Guido de' Rossi, oltre che impedire ai Tirolesi una netta vittoria su Venezia, consentirono alla Serenissima Repubblica di mantenere i propri confini e di garantire il possesso su Rovereto per altri vent'anni.
Guido de’Rossi e Ambrogina Borromeo diedero i natali a Bernardo, vescovo di Treviso e Belluno, ritratto nel 1505 da Lorenzo Lotto.
Guido de' Rossi morì in Venezia nel 1490. Scrisse l'Angeli che "se ne morì in Vinegia con molto dolore di tutta la città. La pompa funerale fu solennemente fatta per ordine della Repubblica, e con molto honorata oratione fu lodato da Marco Antonio Sabellico, e seppellito nella chiesa della Carità". 



Fonti bibliografiche e archivistiche:
Angeli Bonaventura, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 347
Bembo M.P., Della Istoria Viniziana, tomo I, Venezia 1790, p. 1487
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 87 n. 94
Franzoi U.-Di Stefano D., Le chiese di Venezia, Venezia 1976, pp. 216-223



lunedì 13 marzo 2017

Le "navi de vero" di Ermosia. Una Vivarini mastra vetraia.




     Seduta al suo banco, Ermosia lavorava la materia vitrea come fosse creta, creando incantevoli navi e galeoni di vetro.
La sua arte era tale da non lasciare indifferente un fine cronista come Marino Sanudo, suo contemporaneo, che nel 1521 la citò nel volume XXX dei suoi famosi Diarii.
Il destino di Ermosia o Armenia, ma anche Armonia o Hermania per alcuni, era simile a quello di tante altre donne del suo tempo: la vita domestica all’ombra di un marito e dei figli oppure un’esistenza chiusa tra le mura di un monastero.
    Ma Ermosia fu più fortunata di altre donne perché poté frequentare la fornace da vetro della sua famiglia, già presente a Murano nel XIV secolo dopo aver trasferito l’attività di vetrai da Padova.
Il bisnonno Michele era ben noto a Venezia sia per la sua arte che per aver dato i natali a due tra i più grandi pittori della tradizione veneziana: Antonio e Bartolomeo Vivarini. Anche il figlio di Antonio, Alvise, intraprese la professione del padre. Ma Ermosia, figlia di Alvise, volle portare avanti la tradizione originaria della sua famiglia, quella di creare oggetti in vetro.
    Per capire l’intreccio famigliare, tra artisti del vetro e del pennello, è interessante vedere l’albero genealogico della famiglia Vivarini redatto da Ludwig e Paoletti nel 1899 e riproposto da Sinigaglia nel 1905 nella monografia scritta proprio sulla famiglia degli artisti muranesi.
Anche se in questo albero genealogico si può notare che manca un legame assai importante per la famiglia Vivarini: il matrimonio tra la sorella di Antonio e Bartolomeo con il pittore di origine tedesca Giovanni d’Alemagna. In questa fonte emerge però un dato in più rispetto a quanto riportato da Marino Sanudo e che riguarda lo stato civile di Ermosia.
Ella, infatti, risulta essere stata “maritata” a Domenico de Calvis, e nonostante i sicuri impegni famigliari riuscì a ricavarsi uno spazio professionale tutto suo, tanto da ottenere un privilegio decennale per produrre proprio quelle “navi de vero” per le quali divenne famosa.
    Non era scontato che la storia restituisse un tale talento visto che alle donne non era concesso iscriversi alle corporazioni di arti e mestieri e anche quando ciò accadeva, la loro arte era legata alla frequentazione delle botteghe di famiglia, come nei casi di Ermosia o di Marietta Robusti (più nota come Tintoretta), e comunque la loro produzione doveva rimanere il più possibile anonima.
Ma le “navi de vero” di Ermosia non potevano passare inosservate, vista la cura che l’artista ci metteva per renderle il più possibile simili alla realtà. E infatti, il cronachista bolognese Leandro Alberti nel 1550, nel descrivere cosa vide a Murano, così scrisse a pagina 423 del suo libro  Descrittione di tutta Italia: «Io ho veduto quivi (fra l’altre cose fatte di vetro) una misurata galea, longa un baccio con tutti suoi fornimenti, tanto misuratamente fatti che par cosa impossibile (come dirò) che di tal materia tanto proporzionatamente si siano potuti formare».
     Non tutti però sono d’accordo nell’attribuire alla Vivarini la realizzazione di tanto prodigiose opere adducendo a sostegno di tale affermazione che Sanudo mancò di citarla nel 1525 quando descrisse la festa della Sensa. Egli infatti scrisse: «Bellissimo tempo; ma pochi forestieri né tele cremasche. Fo in piaza do belle botege, una di cose de alabastro lavorate a Fiorenza di pietra tenera bianca sì cava sotto Piombin, molto belle, e dimandano assai dil pezo, l’altre 3 botege di veri, videlicet Anzoleto, quel de la Serena, et Francesco Balarin con lavori bellissimi, inter coetera vidi una galia e una nave granda bellissima, senza altri vazi e cose di vero meravigliose».
Scrive infatti Barovier Mentasti nel 1982: «le navi di Armenia dovevano essere di un genere particolare, forse fabbricate a lume o con qualche altra tecnica non strettamente vetraria, dato che la figlia di Vivarini non venne annoverata nelle carte antiche tra i gestori di fornace e che, malgrado il suo privilegio, alla fiera dell’Ascensione di pochi anni dopo, il Sanudo poté ammirare galee vitree fabbricate da altri».
   Il fatto che il nome di Ermosia non compaia nei documenti antichi come gestrice di fornace non deve sorprendere perché, nonostante potesse vantare il privilegio per la realizzazione delle “navi de vero”, rimane valido quanto scritto sopra: alle donne non era concessa quella libertà di azione professionale che era a completo appannaggio degli uomini.
Rileggendo inoltre quanto scrive Sanudo a pagina 346 del volume XXXVIII dei Diarii e confrontando le voci riportate in indice dallo stesso autore, possiamo rilevare che “Anzoleto” è alias Angioletto Barovier  fabbricatore di vetro, Francesco Ballarin era un venditore di vetri mentre la denominazione “Serena” riportata nel passo di cronaca poi non viene nemmeno riportata in indice, pertanto nulla si sa di chi fosse o cosa proponesse nella sua bottega presente alla festa della Sensa.
Rimane quindi il dubbio se a quella festa Ermosia non abbia partecipato fisicamente, affidando le sue opere al Ballarin – chissà, forse era impegnata in faccende domestiche -, oppure se dietro al misterioso nome di Serena, non ci fosse in realtà proprio lei.
    Qui finisce per il momento la storia di Ermosia Vivarini, in attesa che nuovi studi vengano fatti e nuove scoperte possano ridare identità a un’artista che il tempo ha dimenticato.

Silvia e Roberta Rizzato

Bibliografia:  
Marino Sanudo, Diarii (MCCCCXCVI-MDXXXIII), Venezia 1879-1903
Leandro Alberti, Descrizione di tutta Italia, 1550
Giorgio Sinigaglia, De' Vivarini, pittori da Murano, Bergamo 1905
Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982
Luke Syson, Dora Thornton, Objects of Virtue: Art in Renaissance Italy, Los Angeles 2001

lunedì 20 febbraio 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 3



MATHEMAUCI PRIMUM/ CASSINENSIS HUIUS FAMILIAE VIRGINES/ IN COENOBIO SS. BASSI, ET LEONIS/ SUB IPSA REIPUBLICAE INITIA,/ DEINDE/ IN INSULA S. SERVULI M. A PETRO AB: SS. BEN: ET HILARII DONATA/ AN D(om)NI MCIX/ AN(n)UENTIB’ ORDELAPHO FALETRO DUCE, ET IO: GRAD:CO PAT: GRAED(en)SI/ SEDEM FIXERUNT./ PROPTER EXIMIAE EXEMPLA SANCTIMONIAE/ PUBLICAE PRIVATAEQ: RE ID COM(m)ODUM ACCIDIT//
 

Questa lapide commemorativa ricorda le vicissitudini delle monache benedettine del monastero dei Santi Leone e Basso di Malamocco, terra anticamente chiamata Matamauco, che nel 1109 lasciarono il  loro cenobio originario - reso pericolante a seguito di un bradisismo (altri parlano di una spaventosa mareggiata) - per trasferirsi nell’isola di San Servolo.
A venire in aiuto delle monache fu l'abate Pietro di Sant'Ilario che offrì loro una nuova sede visto che i confratelli di San Servolo - presenti nell'isola fin dagli inizi del IX secolo - grazie a ricche donazioni ed elargizioni poterono trasferire la loro sede nella più importante abbazia di sant'Ilario presso Malcontenta. 
Come ricordato nella lapide, tutto questo avvenne quando a Venezia governava il doge Ordelafo Faliero e patriarca di Grado era Giovanni Gradenigo (Ordelafo Faliero rimase in carica dal 1102 al 1117).
Le monache benedettine rimasero nell’isola per più di cinque secoli. Nel 1615, infatti, vista anche l’insalubrità dell’isola e la vacanza della sede del convento dei Gesuiti, nel frattempo espulsi da Venezia, le monache trasferirono il loro cenobio sotto il titolo di Santa Maria dell’Umiltà.

La chiesa e il monastero di Santa Maria dell’Umiltà erano posti dietro alla Basilica di Santa Maria della Salute, lungo la fondamenta delle Zattere; costruiti nei primi anni del XVI secolo, appartenevano, così come la struttura della Trinità, al priorato dei Cavalieri Teutonici. Quando nel 1592 papa Clemente VIII decretò la soppressione del priorato, il complesso venne posto sotto la giurisdizione dei padri Gesuiti, i quali apportarono notevoli modifiche ai fabbricati.
Con l’espulsione, nel 1606, dei Gesuiti dalla città e dall’intero territorio della Dominante, il convento e la chiesa dalla Madonna dell’Umiltà vennero affidati nel 1615 alle monache benedettine dell’isola di San Servolo che li ressero fino alla soppressione napoleonica. L’intera struttura venne poi abbattuta nel 1824.
Per ulteriori informazioni sul complesso di Santa Maria dell'Umiltà, suggeriamo questa lettura:

Fonti bibliografiche e archivistiche:
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 87 n. 95
Franzoi U.-Di Stefano D., Le chiese di Venezia, Venezia 1975 p. 236

lunedì 13 febbraio 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 2



COR/ RUZIN[AE]/ RUZINI PROCURATISSE/ HIC SITUM EST/ NICOLAUS FUSCARENUS FILIUS EQ[UES ET]/ D. MARCI PROCURATOR/ MONUMENTUM [P]OSUIT/ OBIIT [DI]E [2]5 MARZII/ [1721] //

               Si tratta della lapide sepolcrale apposta da Nicolò Foscarini in memoria della madre Ruzzina Ruzzini, figlia del procuratore di San Marco, nata nel 1650 circa e morta il giorno 25 marzo 1721.
Essa proviene dall'antica chiesa della Trinità, demolita in occasione della costruzione della basilica della Salute.
La chiesa e il convento della Trinità vennero costruiti per volontà del doge Raniero Zeno intorno al 1256 che
li cedette all’Ordine Teutonico, che qui trasferì la sede del suo priorato, forse quale ricompensa per l’aiuto dato dai cavalieri alla Repubblica in occasione della guerra contro Genova.
Quando nel 1592 il papa Clemente VIII sciolse l’antico priorato veneziano, l’intero complesso della Trinità, più le rendite da esso derivanti, venne assegnato al seminario da poco sorto nell’isola di Murano e retto dai padri comaschi. Le successive vicende delle strutture della Trinità sono legate alla terribile epidemia di peste del 1630, e al voto fatto dal governo ducale alla Madonna affinché facesse cessare il morbo. Per adempiere al voto si decise di erigere la grandiosa Basilica della Madonna della Salute proprio nell’area occupata anche dal complesso monastico cancellando dalla visione urbana una struttura architettonica che, nonostante i restauri e le trasformazioni, aveva mantenuto nel tempo i caratteri stilistici dei secoli XI e XII.
             Ma chi erano Nicolò Foscarini e Ruzzina Ruzzini?

Nicolò Foscarini nacque a Venezia il 16 marzo 1671 da Nicolò del ramo di San Stae e da Ruzzina Ruzzini.
Ruzzina Ruzzini apparteneva a una delle famiglie più in vista di Venezia tanto che il fratello Carlo divenne doge della Repubblica nel 1732.
Nicolò venne alla luce già orfano in quanto il padre fu ammazzato il 22 gennaio 1671 da un colpo di pistola sparatogli da Giovanni Mocenigo dopo una lite. Pure il nonno di Nicolò ebbe un destino di violenza: dopo l’omicidio di un artigiano, marito della donna di cui si era invaghito, venne esiliato a Mantova.
Fu lo zio Sebastiano a prendersi cura di Nicolò e del fratello Giacomo, facendolo studiare presso il collegio parigino di Clermont. Nel 1694 Nicolò si sposò con Eleonora di Marco Loredan e solo dopo la nascita dei due figli, Alvise e Marco, intraprese la carriera politica.
Dal primo agosto 1698 al novembre 1699, egli fu capitano a Vicenza. Al suo rientro in città, nel 1700, Nicolò rifiutò l’incarico di Ambasciatore a Parigi e questo gli costò l’allontanamento dalla politica per ben due anni. Dal 1704 al 1710 fu Savio di Terraferma e divenne ambasciatore in Francia e Inghilterra. Nicolò ricoprì molte cariche nelle magistrature veneziane. Morì il 15 novembre 1752.

Fonti bibliografiche e archivistiche:
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 87 n. 96
Franzoi U.-Di Stefano D., Le chiese di Venezia, Venezia 1975, pp. 237-240
Targhetta R., ad vocem Foscarini Nicolò in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1997, vol. 49

mercoledì 1 febbraio 2017

Racconto di Venezia. Quando le lapidi parlano. 1



EMINENTISSIMUS/ DD FEDRICUS/ TITULI S. MARCI/ S.R.E./ CARDINALIS CORNELIUS/ VENETIA R. PATRIARCHI/ DALMATIAEQUE PRIMAS/ PRIMA(m) HAC SUB ARA/ MISSA(m) CELEBRAVIT/ MDCXXXVI VI AUGUSTI//
Spesso, visitando città ed edifici pubblici, ci imbattiamo in lapidi che difficilmente riusciamo a decifrare e a capire il messaggio che racchiudono. Eppure proprio in quelle lastre di pietra o superfici dipinte si racchiude la storia della città e delle persone che contribuirono a farla crescere.
La “lettura” delle lapidi potrebbe costituire uno stimolo per creare nuovi percorsi conoscitivi e turistici alla scoperta di personalità dimenticate o per ritrovare le radici di comunità che arrivate da lontano trovarono nelle città di adozione spazio per far crescere le loro attività.
Il chiostro del Seminario Patriarcale di Venezia racchiude un ampio catalogo di testimonianze lapidee provenienti per lo più da chiese distrutte o parzialmente modificate.
Inizieremo il nostro percorso di riscoperta di personaggi o situazioni passate da una lapide un tempo affissa nel muro dell’antica chiesa di Sant’Antonin di Castello.
Come si può vedere nella vista prospettica della città di Venezia incisa da Jacopo

de’ Barbari nel 1500, la chiesa di Sant’Antonin appare come un edificio a pianta basilicale, a tre navate con facciata a salienti, le pareti laterali partite da alte lesene raccordate nella parte superiore da archetti a tutto sesto e il campanile con alta canna scandita da lesene con cella campanaria a bifora e copertura conica.
Attorno al 1668 l’edificio sacro venne completamente ristrutturato, forse su progetto di Baldassare Longhena, demolendo gran parte dell’antico impianto per far posto a una nuova costruzione a piana quadrata con profondo presbiterio, salvando però la cappella laterale di San Saba decorata con stucchi avvicinabili allo stile del Vittoria.
I lavori si protrassero almeno fino al 1680 e si conclusero nel 1750 con la costruzione de
l campanile con la caratteristica cuspide a cipolla.
Fu sicuramente a seguito di questi lavori che la lapide presa in esame venne asportata e portata in Seminario Patriarca. Essa ricorda la consacrazione del cardinale Federico Corner, patriarca di Venezia, celebrata il 6 agosto 1636.
Ma chi era Federico Corner?
Federico Corner nacque a Venezia il 16 novembre 1579, terzogenito di Marcantonio e Chiara Dolfin di Lorenzo. Appartenente a una delle più ricche e potenti famiglie veneziane - suo padre e suo fratello Francesco divennero dogi - diventò settimo cardinale della casata.
Il 16 gennaio 1588 lo zio Francesco, allora chierico di Camera di Sisto V, gli fece ottenere dal Gran Maestro dell’Ordine Gerosolimitano, il giuspatronato del priorato di Cipro. Successivamente, intraprese studi giuridici presso l’università di Padova, utili per accedere ad alte cariche laiche ed ecclesiastiche. Dopo il conseguimento della laurea, nel 1602, ottenne da papa Clemente VIII la nomina di chierico di Camera.
Divenuto vescovo di Bergamo, vent’anni dopo, non volle però rinunciare alla vita presso la corte papale il che gli permise, il 19 gennaio 1626, di venir nominato cardinale da papa Urbano VIII.
Nel 1631 Federico, dopo varie vicissitudini per l’assegnazione del titolo vescovile di Padova, venne eletto Patriarca di Venezia. Egli però giunse in laguna solo un anno più tardi, il 27 giugno 1632, preferendo nel frattempo risiedere presso l’Abbazia di Vidor, in attesa che a Venezia passasse l’epidemia di peste.
Dopo dodici anni, nel 1644, il Corner rinunciò al titolo patriarcale ritirandosi a Roma dove soggiornerà ininterrottamente, tranne i lunghi periodi trascorsi nella quiete di Vidor, fino alla morte avvenuta il 5 giugno 1653. Fu sepolto nella splendida cappella di Santa Teresa (ove è posto lo spettacolare gruppo scultoreo dell'Estasi di santa Teresa d'Avila, opera di Gian Lorenzo Bernini), nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove aveva fatto scolpire i busti di sei cardinali della sua famiglia e del doge suo padre.
A Federico Corner si deve la costruzione del Seminario Patriarcale di Venezia.

Fonti bibliografiche e archivistiche:
Moschini G.A., La chiesa e il seminario di S. Maria della Salute in Venezia, Venezia 1842, p. 88 n. 98
Gullino G., ad vocem Federico Corner in Dizionario biografico degli italiani Treccani, Roma 1983, vol. 29