lunedì 21 agosto 2017

Fisso l’idea. Un messaggio pubblicitario che usa la psicologia come arma di persuasione.



 Dudovich è giovanissimo quando realizza questo manifesto, poco più di vent'anni; eppure riesce a fare una sintesi perfetta della lezione artistica appresa a Milano presso le Officine Grafiche Giulio Ricordi, intuendo che la pubblicità è fatta anche di messaggi subliminali, di sottotesti che possono andare oltre alle parole o alle immagini esplicitate.
Per questo cartello Dudovich sceglie un formato di piccole dimensioni, verticale e una composizione leggermente disassata a destra. In esso c’è tutta l’influenza dei grandi maestri che lo formarono a Milano: se da Metlicovitz deriva la scelta di adottare una figura classica, decisamente michelangiolesca, per lanciare il messaggio pubblicitario scritto da una mano intrisa nell’inchiostro, da Hohenstein prende senza ombra di dubbio quegli elementi Liberty che, trattati quasi fossero un negativo scegliendo di lasciarli bianchi come la carta, escono quasi dal manifesto stagliandosi sulla più decisa tinta nera del moderno inchiostro e dello sfondo seppia, che ricorda invece il più antico liquido usato per scrivere, divenuto però ormai obsoleto e poco al passo con i tempi.
Un manifesto che non poteva lasciare indifferenti. Fortissimo è l’impatto di quella figura di spalle, inginocchiata su una sola gamba che sembra uscire dall’inchiostro per portare il suo importante messaggio: l’inchiostro fissa, nero su bianco ciò che si potrebbe volatilizzare o deformare con il passare del tempo. Un messaggio antico, se vogliamo, che non si discosta molto dal proverbio latino verba volant, scripta manent. Ma ancor più forte è proprio il messaggio lasciato sul muro dal giovane uomo: fissa l’idea, che va oltre alla funzione dell’inchiostro, ma che entra più nello specifico del moderno pensiero. E questo può essere confermato osservando le due macchie di colore giallo - prive di contorno come Dudovich aveva appreso dalla lezione di Laskoff – che fanno pensare ai fumi che possono uscire dalla mente che sta ragionando.
Un cartello che quindi va oltre al messaggio pubblicitario, ma che potrebbe sintetizzare anche le contemporanee teorie psicoanalitiche: fissare l’idea significa non poterla più modificare e rendere concreto e reale ciò che si ha in mente. Sia che si tratti di un’idea progettuale che un pensiero che arrivi dall’inconscio. E questo lo si può fare solo se si usa l’inchiostro!

Silvia Rizzato

lunedì 7 agosto 2017

Dudovich e la pubblicità che arriva d’estate




Una bella sorpresa attendeva i napoletani la sera del 15 giugno 1894.

La réclame, gli affissi e i cataloghi non erano più sufficienti per richiamare la clientela negli ampi spazi dei Magazzini Italiani dei fratelli Mele. Così Emmidio Mele, in collaborazione con l’amministrazione comunale, si inventò qualcosa di speciale per animare le calde serate estive partenopee: le “Feste estive”, una sorta di “notti bianche” ante litteram in cui si prevedeva, tra le altre cose, un’apertura straordinaria dei negozi oltre il consueto orario (Barbagallo 2015, p. 110).

Dal 15 giugno al 15 settembre, via Toledo – dove sorgevano i Magazzini Italiani Mele – e le vie limitrofe si animavano di gente che, tra uno struscio serale e l’altro, attirati dallo sfavillio delle luci, non mancavano di fare un giro anche all’interno del grande magazzino più di moda e popolare di Napoli. Un’illuminazione notturna che fu una novità assoluta non solo per Napoli ma probabilmente per l’Italia intera, proposta da chi, viaggiando molto per l’Europa sempre alla ricerca di novità da proporre nel proprio negozio, riusciva a far proprie le idee più all’avanguardia del marketing: Emiddio e Alfonso, per esempio, compresero prima degli altri patron di grandi magazzini che investire sull’affisso pubblicitario avrebbe portato un grande ritorno in termini di clientela e quindi di affari.

Durante la vita dei Magazzini Italiani - circa un quarantennio protrattosi dal 5 ottobre del 1889 al settembre 1932 -, la famiglia Mele produsse circa 180 tra manifesti e locandine (Picone Petrusa 1988, p. 74 n. 2), i quali non solo servirono a pubblicizzare i prodotti venduti negli ampi spazi commerciali ma, con il tempo, divennero anche una sorta di chiara testimonianza di come in pochi anni si modificò il gusto estetico degli italiani.

Un chiaro esempio del mutamento della moda in voga in Italia negli anni che precedettero la Grande Guerra, lo troviamo nel manifesto realizzato da Dudovich nel 1912. Si tratta di un affisso realizzato per piani sovrapposti, con un punto di “ripresa” che va dal basso verso l’alto.

In primo piano si staglia una bella ragazza con cappello ad ampia tesa che nasconde uno sguardo accattivante, le mani giunte dietro la schiena che trattengono i guanti da sera e il lungo vestito, in tre colori con breve spacco laterale, che fa intravvedere, spudoratamente, i piedi calzati in appuntite scarpe nere con la fibbia e la gamba ben oltre la caviglia. Non occorre sottolineare che tale mise era composta da tutti articoli reperibili presso i magazzini Mele.

Ma è l’abito, però, che suscita maggiore attenzione: con grande maestria Dudovich riuscì, con fitte linee verticali sulle tona
lità del rosa e dell’azzurro quasi a creare un effetto cangiante, a dare il senso della plissettatura, quella stessa inventata da Mariano Fortuny nel 1907 per realizzare il suo più famoso
ed esclusivo modello Delphos. Un abito, quello di Fortuny, che scendeva morbido sul corpo delle signore, adattandosi alle loro curve grazie all’effetto “fisarmonica” della stoffa. Vero è che il Delphos copriva ben oltre la caviglia, appoggiandosi come una campanula al pavimento ma, volendo, grazie a una trovata dello stilista che aveva apposto delle cordicelle nascoste su maniche e corpo, si poteva adattare alle esigenze del momento: in estate poteva essere un abito smanicato e nelle mezze stagioni con maniche a tre quarti e la lunghezza del corpo poteva variare a seconda se si preferiva portarlo come una lunga tunica o rimborsato legando in vita una fusciacca. Non c’è, però, dubbio che il modello realizzato per i magazzini Mele, e ritratto da Dudovich, sia un parente alquanto stretto con il più famoso Delphos.

In secondo piano troviamo poi due figure vestite in foggie d’altri tempi che quasi si confondono con l’oscurità della notte. L’uomo guarda con sguardo malizioso la giovin donzella, ammirandone sia la caviglia scoperta che l’abito aderente, nonostante quel modello estetico sia ben lontano da ciò che la sua non giovane età è abituata, ossia quella forma a S del corpo definita da bustini e cul-de paris che tanto andava in voga tra fine Ottocento e inizio Novecento. La donna invece, forse trattenendo per un braccio il suo accompagnatore, serrando la bocca nasconde sotto l’ampio cappello uno sguardo di disappunto per tanta dissolutezza.

E arriviamo infine al terzo piano, quello con il nome del brand definito dalle lampadine colorate, che illuminavano le notti delle Feste estive, parzialmente nascosto dai cappelli dei tre personaggi dando un effetto tridimensionale all’intera scena.

È interessante notare che in questo manifesto il nome Mele è seguito solo da “& C.” senza più riportare gli acronimi dei due fondatori dei Magazzini Italiani, Emeddio e Alfonso. Questo si spiega con la scelta dei due fratelli, forse stanchi di una vita fatta di viaggi e magari desiderosi di trascorre più tempo con le loro famiglie, di cedere l’attività al nipote Davide, cresciuto dai due fratelli come fosse un figlio loro tanto da pagargli tutte le spese per la sua formazione, finanche la frequentazione dell’università a Berlino.

Questi, subito dopo, con atto notarile rogato il primo maggio 1910 dal notaio Bordino di Milano, costituì la società in accomandita semplice “Mele e C.” gestita completamente da lui e da tale Pietro Picchetti (Barbagallo 2015, p. 90).

Quest’ultima informazione diventa quindi di notevole importanza per poter datare con maggior precisione alcuni affissi prodotti dalla famiglia Mele.

 

Silvia Rizzato


Bibliografia:

Barbagallo Francesco, Napoli, Belle Époque, Roma-Bari 2015

Picone Petrusa Mariantonietta, I manifesti Mele e la produzione cartellonistica napoletana fra Ottocento e Novecento, in I manifesti Mele. Immagini aristocratiche della “belle époque” per un pubblico di Grandi Magazzini, Milano 1988, pp. 31-81



martedì 1 agosto 2017

Franz Laskoff e i Magazzini Mele


Franz Laskoff, 1902

      
I Magazzini Mele non furono solo un “Paradiso delle signore” al pari dei grandi magazzini parigini che ispirarono il romanzo di Emile Zola, ma anche una vera fucina di réclame disegnate dai migliori cartellonisti italiani del momento.
Fondati nel 1889 dai fratelli Emiddio e Alfonso Mele, facoltosi proprietari terrieri, gli omonimi magazzini (il cui slogan recitava: Massimo buon mercato) prendono vita proprio sulla scia di quanto i due fratelli napoletani avevano ammirato a Parigi: gli empori La Fayette e il Bon Marché.
Franz Laskoff, 1901
Il loro piglio imprenditoriale e l’intuizione che quel tipo di commercio - basato anche sulla vendita su catalogo - sarebbe stato il futuro, li convinse ad aprire proprio nella loro città un negozio dove si poteva trovare di tutto, dai vestiti allo champagne, dagli elementi di arredo della casa finanche all’amido per la biancheria. Una sorta di raffinato gran bazar che appagava le richieste di una clientela di nuova formazione, la borghesia agiata, a cui piaceva spendere non solo per beni di prima necessità ma anche per delle frivolezze che solo in un grande magazzino si potevano trovare.
E l’ulteriore grande intuizione dei fratelli Mele fu proprio quella di scommettere sulla pubblicità, per cui investirono ingenti somme di denaro facendo eseguire da tipografi locali dei cartelloni da fissare sui muri della città seguendo il loro particolare gusto artistico e la loro idea di come proporre i prodotti che commerciavano. Ma trascorso il primo decennio di attività, e appurato che avevano scommesso bene con i Magazzini Mele, i due fratelli napoletani decisero di fare un salto di qualità rivolgendosi alla più grande casa pubblicitaria d’Italia: l’Officina Grafica Ricordi di Milano. Per la Ricordi in quegli anni lavoravano i più bravi e importanti cartellonisti sia italiani che stranieri, tra cui Franz Laskoff che si distingueva per uno stile anglosassone con figure piatte dai contorni sottilissimi.
Beggerstaff, 1895
Franz Laskoff, nome d’arte di François Laskowski, nacque a Bromberg, Polonia, nel 1869, ma già nel 1874 si trasfirì con la famiglia a Strasburgo, dove compì i suoi studi prima di approdare a Parigi. Ventunenne arrivò a Milano dove trovò impiego presso le Officine Grafiche Ricordi, sotto la direzione artistica di Adolfo Hohenstein.
Nonostante il suo stile si discostasse non poco da quello dei suoi colleghi, vedi fra tutti Dudovich o Terzi che per i Magazzini Mele produssero altrettanti celeberrimi cartelloni, Hohenstein concesse a Laskoff piena libertà di espressione, assecondando la sua vena artistica che si avvicinava ai modi degli inglesi Beggerstaffs Brothers.
Fu così che i suoi cartelloni si poterono distinguere per l’uso della tinta piatta, senza contorni o al più appena accennati, eliminando completamente le mezzetinte, come fossero stati composti utilizzando la tecnica del collage tipica della produzione dello studio Beggerstaffs.
Beggerstaff, 1894
Questa tecnica compositiva però non riuscì a conquistare a pieno il gusto della committenza e nel 1906 Laskoff decise di lasciare l’Italia per approdare in Gran Bretagna, nazione che aveva dato i natali proprio ai cognati William Nicholson e James Pryde, fondatori dello studio Beggerstaff. È da sottolineare però che nemmeno i Beggerstaff Brothers ebbero grande fortuna in patria: la loro attività durò solo un lustro (dal 1894 al 1899) perché il loro stile era considerato troppo avveniristico e audace.
L’attività anglosassone di Laskoff seppe inserirsi proprio in quella via di mezzo tra l’audacia dei Beggerstaffs e i più “tradizionali” cartellonisti d’oltremanica, dandogli così la possibilità di continuare la sua attività di cartellonista fino allo scoppio del Grande Guerra. Laskoff venne poi dato per disperso in battaglia nel 1918.
Per chiudere, i Magazzini Mele continuarono a prosperare fino alla morte di Emmidio nel 1928, dopodiché l’impresa passò al nipote Davide che non riuscì a far fronte alla grande crisi del 1929 tanto più che il suo impegno in Senato (incarico ottenuto già nel 1928) lo costringeva a trascorrere molto tempo a Roma. I Magazzini Mele chiusero quindi definitivamente le serrande nel 1932.

Silvia Rizzato