lunedì 13 marzo 2017

Le "navi de vero" di Ermosia. Una Vivarini mastra vetraia.




     Seduta al suo banco, Ermosia lavorava la materia vitrea come fosse creta, creando incantevoli navi e galeoni di vetro.
La sua arte era tale da non lasciare indifferente un fine cronista come Marino Sanudo, suo contemporaneo, che nel 1521 la citò nel volume XXX dei suoi famosi Diarii.
Il destino di Ermosia o Armenia, ma anche Armonia o Hermania per alcuni, era simile a quello di tante altre donne del suo tempo: la vita domestica all’ombra di un marito e dei figli oppure un’esistenza chiusa tra le mura di un monastero.
    Ma Ermosia fu più fortunata di altre donne perché poté frequentare la fornace da vetro della sua famiglia, già presente a Murano nel XIV secolo dopo aver trasferito l’attività di vetrai da Padova.
Il bisnonno Michele era ben noto a Venezia sia per la sua arte che per aver dato i natali a due tra i più grandi pittori della tradizione veneziana: Antonio e Bartolomeo Vivarini. Anche il figlio di Antonio, Alvise, intraprese la professione del padre. Ma Ermosia, figlia di Alvise, volle portare avanti la tradizione originaria della sua famiglia, quella di creare oggetti in vetro.
    Per capire l’intreccio famigliare, tra artisti del vetro e del pennello, è interessante vedere l’albero genealogico della famiglia Vivarini redatto da Ludwig e Paoletti nel 1899 e riproposto da Sinigaglia nel 1905 nella monografia scritta proprio sulla famiglia degli artisti muranesi.
Anche se in questo albero genealogico si può notare che manca un legame assai importante per la famiglia Vivarini: il matrimonio tra la sorella di Antonio e Bartolomeo con il pittore di origine tedesca Giovanni d’Alemagna. In questa fonte emerge però un dato in più rispetto a quanto riportato da Marino Sanudo e che riguarda lo stato civile di Ermosia.
Ella, infatti, risulta essere stata “maritata” a Domenico de Calvis, e nonostante i sicuri impegni famigliari riuscì a ricavarsi uno spazio professionale tutto suo, tanto da ottenere un privilegio decennale per produrre proprio quelle “navi de vero” per le quali divenne famosa.
    Non era scontato che la storia restituisse un tale talento visto che alle donne non era concesso iscriversi alle corporazioni di arti e mestieri e anche quando ciò accadeva, la loro arte era legata alla frequentazione delle botteghe di famiglia, come nei casi di Ermosia o di Marietta Robusti (più nota come Tintoretta), e comunque la loro produzione doveva rimanere il più possibile anonima.
Ma le “navi de vero” di Ermosia non potevano passare inosservate, vista la cura che l’artista ci metteva per renderle il più possibile simili alla realtà. E infatti, il cronachista bolognese Leandro Alberti nel 1550, nel descrivere cosa vide a Murano, così scrisse a pagina 423 del suo libro  Descrittione di tutta Italia: «Io ho veduto quivi (fra l’altre cose fatte di vetro) una misurata galea, longa un baccio con tutti suoi fornimenti, tanto misuratamente fatti che par cosa impossibile (come dirò) che di tal materia tanto proporzionatamente si siano potuti formare».
     Non tutti però sono d’accordo nell’attribuire alla Vivarini la realizzazione di tanto prodigiose opere adducendo a sostegno di tale affermazione che Sanudo mancò di citarla nel 1525 quando descrisse la festa della Sensa. Egli infatti scrisse: «Bellissimo tempo; ma pochi forestieri né tele cremasche. Fo in piaza do belle botege, una di cose de alabastro lavorate a Fiorenza di pietra tenera bianca sì cava sotto Piombin, molto belle, e dimandano assai dil pezo, l’altre 3 botege di veri, videlicet Anzoleto, quel de la Serena, et Francesco Balarin con lavori bellissimi, inter coetera vidi una galia e una nave granda bellissima, senza altri vazi e cose di vero meravigliose».
Scrive infatti Barovier Mentasti nel 1982: «le navi di Armenia dovevano essere di un genere particolare, forse fabbricate a lume o con qualche altra tecnica non strettamente vetraria, dato che la figlia di Vivarini non venne annoverata nelle carte antiche tra i gestori di fornace e che, malgrado il suo privilegio, alla fiera dell’Ascensione di pochi anni dopo, il Sanudo poté ammirare galee vitree fabbricate da altri».
   Il fatto che il nome di Ermosia non compaia nei documenti antichi come gestrice di fornace non deve sorprendere perché, nonostante potesse vantare il privilegio per la realizzazione delle “navi de vero”, rimane valido quanto scritto sopra: alle donne non era concessa quella libertà di azione professionale che era a completo appannaggio degli uomini.
Rileggendo inoltre quanto scrive Sanudo a pagina 346 del volume XXXVIII dei Diarii e confrontando le voci riportate in indice dallo stesso autore, possiamo rilevare che “Anzoleto” è alias Angioletto Barovier  fabbricatore di vetro, Francesco Ballarin era un venditore di vetri mentre la denominazione “Serena” riportata nel passo di cronaca poi non viene nemmeno riportata in indice, pertanto nulla si sa di chi fosse o cosa proponesse nella sua bottega presente alla festa della Sensa.
Rimane quindi il dubbio se a quella festa Ermosia non abbia partecipato fisicamente, affidando le sue opere al Ballarin – chissà, forse era impegnata in faccende domestiche -, oppure se dietro al misterioso nome di Serena, non ci fosse in realtà proprio lei.
    Qui finisce per il momento la storia di Ermosia Vivarini, in attesa che nuovi studi vengano fatti e nuove scoperte possano ridare identità a un’artista che il tempo ha dimenticato.

Silvia e Roberta Rizzato

Bibliografia:  
Marino Sanudo, Diarii (MCCCCXCVI-MDXXXIII), Venezia 1879-1903
Leandro Alberti, Descrizione di tutta Italia, 1550
Giorgio Sinigaglia, De' Vivarini, pittori da Murano, Bergamo 1905
Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982
Luke Syson, Dora Thornton, Objects of Virtue: Art in Renaissance Italy, Los Angeles 2001

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