Seduta al suo banco, Ermosia lavorava la materia vitrea come
fosse creta, creando incantevoli navi e galeoni di vetro.
La sua arte era tale da non lasciare indifferente un fine
cronista come Marino Sanudo, suo contemporaneo, che nel 1521 la citò nel volume
XXX dei suoi famosi Diarii.
Il destino di Ermosia o Armenia, ma anche Armonia o Hermania
per alcuni, era simile a quello di tante altre donne del suo tempo: la vita
domestica all’ombra di un marito e dei figli oppure un’esistenza chiusa tra le
mura di un monastero.
Ma Ermosia fu più fortunata di altre donne perché poté
frequentare la fornace da vetro della sua famiglia, già presente a Murano nel
XIV secolo dopo aver trasferito l’attività di vetrai da Padova.
Il bisnonno Michele era ben noto a Venezia sia per la sua
arte che per aver dato i natali a due tra i più grandi pittori della tradizione
veneziana: Antonio e Bartolomeo Vivarini. Anche il figlio di Antonio, Alvise,
intraprese la professione del padre. Ma Ermosia, figlia di Alvise, volle
portare avanti la tradizione originaria della sua famiglia, quella di creare
oggetti in vetro.
Per capire l’intreccio famigliare, tra artisti del vetro e
del pennello, è interessante vedere l’albero genealogico della famiglia
Vivarini redatto da Ludwig e Paoletti nel 1899 e riproposto da Sinigaglia nel
1905 nella monografia scritta proprio sulla famiglia degli artisti muranesi.
Anche se in questo albero genealogico si può notare che
manca un legame assai importante per la famiglia Vivarini: il matrimonio tra la
sorella di Antonio e Bartolomeo con il pittore di origine tedesca Giovanni
d’Alemagna. In questa fonte emerge però un dato in più rispetto a quanto
riportato da Marino Sanudo e che riguarda lo stato civile di Ermosia.
Ella, infatti, risulta essere stata “maritata” a Domenico de
Calvis, e nonostante i sicuri impegni famigliari riuscì a ricavarsi uno spazio
professionale tutto suo, tanto da ottenere un privilegio decennale per produrre
proprio quelle “navi de vero” per le quali divenne famosa.
Non era scontato che la storia restituisse un tale talento
visto che alle donne non era concesso iscriversi alle corporazioni di arti e
mestieri e anche quando ciò accadeva, la loro arte era legata alla
frequentazione delle botteghe di famiglia, come nei casi di Ermosia o di Marietta
Robusti (più nota come Tintoretta), e comunque la loro produzione doveva
rimanere il più possibile anonima.
Ma le “navi de vero” di Ermosia non potevano passare
inosservate, vista la cura che l’artista ci metteva per renderle il più
possibile simili alla realtà. E infatti, il cronachista bolognese Leandro
Alberti nel 1550, nel descrivere cosa vide a Murano, così scrisse a pagina 423
del suo libro Descrittione di tutta
Italia: «Io ho veduto quivi (fra l’altre cose fatte di vetro) una misurata
galea, longa un baccio con tutti suoi fornimenti, tanto misuratamente fatti
che par cosa impossibile (come dirò) che di tal materia tanto
proporzionatamente si siano potuti formare».
Non tutti però sono d’accordo nell’attribuire alla Vivarini
la realizzazione di tanto prodigiose opere adducendo a sostegno di tale
affermazione che Sanudo mancò di citarla nel 1525 quando descrisse la festa
della Sensa. Egli infatti scrisse: «Bellissimo
tempo; ma pochi forestieri né tele cremasche. Fo in piaza do belle botege, una di
cose de alabastro lavorate a Fiorenza di pietra tenera bianca sì cava sotto
Piombin, molto belle, e dimandano assai dil pezo, l’altre 3 botege di veri, videlicet Anzoleto, quel de la Serena, et Francesco
Balarin con lavori bellissimi, inter
coetera vidi una galia e una nave granda bellissima, senza altri vazi e
cose di vero meravigliose».
Scrive infatti Barovier Mentasti nel 1982: «le navi di
Armenia dovevano essere di un genere particolare, forse fabbricate a lume o con
qualche altra tecnica non strettamente vetraria, dato che la figlia di Vivarini
non venne annoverata nelle carte antiche tra i gestori di fornace e che,
malgrado il suo privilegio, alla fiera dell’Ascensione di pochi anni dopo, il
Sanudo poté ammirare galee vitree fabbricate da altri».
Il fatto che il nome di Ermosia non compaia nei documenti
antichi come gestrice di fornace non deve sorprendere perché, nonostante
potesse vantare il privilegio per la realizzazione delle “navi de vero”, rimane
valido quanto scritto sopra: alle donne non era concessa quella libertà di
azione professionale che era a completo appannaggio degli uomini.
Rileggendo inoltre quanto scrive Sanudo a pagina 346 del
volume XXXVIII dei Diarii e confrontando le voci riportate in indice
dallo stesso autore, possiamo rilevare che “Anzoleto” è alias Angioletto Barovier fabbricatore
di vetro, Francesco Ballarin era un venditore di vetri mentre la denominazione
“Serena” riportata nel passo di cronaca poi non viene nemmeno riportata in
indice, pertanto nulla si sa di chi fosse o cosa proponesse nella sua bottega
presente alla festa della Sensa.
Rimane quindi il dubbio se a quella festa Ermosia non abbia
partecipato fisicamente, affidando le sue opere al Ballarin – chissà, forse era
impegnata in faccende domestiche -, oppure se dietro al misterioso nome di
Serena, non ci fosse in realtà proprio lei.
Qui finisce per il momento la storia di Ermosia Vivarini, in
attesa che nuovi studi vengano fatti e nuove scoperte possano ridare identità a
un’artista che il tempo ha dimenticato.
Silvia e Roberta Rizzato
Bibliografia:
Marino Sanudo, Diarii (MCCCCXCVI-MDXXXIII), Venezia 1879-1903
Leandro Alberti, Descrizione di tutta Italia, 1550
Giorgio Sinigaglia, De' Vivarini, pittori da Murano, Bergamo 1905
Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982
Luke Syson, Dora Thornton, Objects of Virtue: Art in Renaissance Italy, Los Angeles 2001
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