lunedì 7 agosto 2017

Dudovich e la pubblicità che arriva d’estate




Una bella sorpresa attendeva i napoletani la sera del 15 giugno 1894.

La réclame, gli affissi e i cataloghi non erano più sufficienti per richiamare la clientela negli ampi spazi dei Magazzini Italiani dei fratelli Mele. Così Emmidio Mele, in collaborazione con l’amministrazione comunale, si inventò qualcosa di speciale per animare le calde serate estive partenopee: le “Feste estive”, una sorta di “notti bianche” ante litteram in cui si prevedeva, tra le altre cose, un’apertura straordinaria dei negozi oltre il consueto orario (Barbagallo 2015, p. 110).

Dal 15 giugno al 15 settembre, via Toledo – dove sorgevano i Magazzini Italiani Mele – e le vie limitrofe si animavano di gente che, tra uno struscio serale e l’altro, attirati dallo sfavillio delle luci, non mancavano di fare un giro anche all’interno del grande magazzino più di moda e popolare di Napoli. Un’illuminazione notturna che fu una novità assoluta non solo per Napoli ma probabilmente per l’Italia intera, proposta da chi, viaggiando molto per l’Europa sempre alla ricerca di novità da proporre nel proprio negozio, riusciva a far proprie le idee più all’avanguardia del marketing: Emiddio e Alfonso, per esempio, compresero prima degli altri patron di grandi magazzini che investire sull’affisso pubblicitario avrebbe portato un grande ritorno in termini di clientela e quindi di affari.

Durante la vita dei Magazzini Italiani - circa un quarantennio protrattosi dal 5 ottobre del 1889 al settembre 1932 -, la famiglia Mele produsse circa 180 tra manifesti e locandine (Picone Petrusa 1988, p. 74 n. 2), i quali non solo servirono a pubblicizzare i prodotti venduti negli ampi spazi commerciali ma, con il tempo, divennero anche una sorta di chiara testimonianza di come in pochi anni si modificò il gusto estetico degli italiani.

Un chiaro esempio del mutamento della moda in voga in Italia negli anni che precedettero la Grande Guerra, lo troviamo nel manifesto realizzato da Dudovich nel 1912. Si tratta di un affisso realizzato per piani sovrapposti, con un punto di “ripresa” che va dal basso verso l’alto.

In primo piano si staglia una bella ragazza con cappello ad ampia tesa che nasconde uno sguardo accattivante, le mani giunte dietro la schiena che trattengono i guanti da sera e il lungo vestito, in tre colori con breve spacco laterale, che fa intravvedere, spudoratamente, i piedi calzati in appuntite scarpe nere con la fibbia e la gamba ben oltre la caviglia. Non occorre sottolineare che tale mise era composta da tutti articoli reperibili presso i magazzini Mele.

Ma è l’abito, però, che suscita maggiore attenzione: con grande maestria Dudovich riuscì, con fitte linee verticali sulle tona
lità del rosa e dell’azzurro quasi a creare un effetto cangiante, a dare il senso della plissettatura, quella stessa inventata da Mariano Fortuny nel 1907 per realizzare il suo più famoso
ed esclusivo modello Delphos. Un abito, quello di Fortuny, che scendeva morbido sul corpo delle signore, adattandosi alle loro curve grazie all’effetto “fisarmonica” della stoffa. Vero è che il Delphos copriva ben oltre la caviglia, appoggiandosi come una campanula al pavimento ma, volendo, grazie a una trovata dello stilista che aveva apposto delle cordicelle nascoste su maniche e corpo, si poteva adattare alle esigenze del momento: in estate poteva essere un abito smanicato e nelle mezze stagioni con maniche a tre quarti e la lunghezza del corpo poteva variare a seconda se si preferiva portarlo come una lunga tunica o rimborsato legando in vita una fusciacca. Non c’è, però, dubbio che il modello realizzato per i magazzini Mele, e ritratto da Dudovich, sia un parente alquanto stretto con il più famoso Delphos.

In secondo piano troviamo poi due figure vestite in foggie d’altri tempi che quasi si confondono con l’oscurità della notte. L’uomo guarda con sguardo malizioso la giovin donzella, ammirandone sia la caviglia scoperta che l’abito aderente, nonostante quel modello estetico sia ben lontano da ciò che la sua non giovane età è abituata, ossia quella forma a S del corpo definita da bustini e cul-de paris che tanto andava in voga tra fine Ottocento e inizio Novecento. La donna invece, forse trattenendo per un braccio il suo accompagnatore, serrando la bocca nasconde sotto l’ampio cappello uno sguardo di disappunto per tanta dissolutezza.

E arriviamo infine al terzo piano, quello con il nome del brand definito dalle lampadine colorate, che illuminavano le notti delle Feste estive, parzialmente nascosto dai cappelli dei tre personaggi dando un effetto tridimensionale all’intera scena.

È interessante notare che in questo manifesto il nome Mele è seguito solo da “& C.” senza più riportare gli acronimi dei due fondatori dei Magazzini Italiani, Emeddio e Alfonso. Questo si spiega con la scelta dei due fratelli, forse stanchi di una vita fatta di viaggi e magari desiderosi di trascorre più tempo con le loro famiglie, di cedere l’attività al nipote Davide, cresciuto dai due fratelli come fosse un figlio loro tanto da pagargli tutte le spese per la sua formazione, finanche la frequentazione dell’università a Berlino.

Questi, subito dopo, con atto notarile rogato il primo maggio 1910 dal notaio Bordino di Milano, costituì la società in accomandita semplice “Mele e C.” gestita completamente da lui e da tale Pietro Picchetti (Barbagallo 2015, p. 90).

Quest’ultima informazione diventa quindi di notevole importanza per poter datare con maggior precisione alcuni affissi prodotti dalla famiglia Mele.

 

Silvia Rizzato


Bibliografia:

Barbagallo Francesco, Napoli, Belle Époque, Roma-Bari 2015

Picone Petrusa Mariantonietta, I manifesti Mele e la produzione cartellonistica napoletana fra Ottocento e Novecento, in I manifesti Mele. Immagini aristocratiche della “belle époque” per un pubblico di Grandi Magazzini, Milano 1988, pp. 31-81



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